Pochi giorni fa doveva tenersi un incontro fra Confindustria e i sindacati confederali per affrontare il tema di un accordo generale sulla contrattazione. All’incontro si è presentata solo la Cisl, mentre Cgil e Uil hanno disertato. Se questi sono i prodromi, una nuova fase dell’unità sindacale si potrà fare solo per intervento legislativo. Il richiamo del segretario generale della Uil che ha espresso un rimpianto per il modello di unità sindacale del 1972 è suonato pertanto fuori stagione. Passi che si può considerare una nostalgia legata alle esperienze giovanili, ma appare antistorico e contrastante con le esigenze sindacali di questo periodo.



La ricerca di un accordo sui modelli contrattuali e la rappresentanza sono invece questioni oggi di grande attualità. Il posizionamento fra chi cerca nuove soluzioni e chi difende il passato appare sempre più chiaro e dovrebbe indurre tutti a cercare nella realtà le tante esperienze positive che indicano le strade possibili.



L’apertura del problema è avvenuto come sempre con il botto. Ci ricordiamo tutti come Marchionne fosse il problema. Al fine di porre al centro la ripresa di produttività aziendale rifiutò il contratto nazionale, aprì un confronto aziendale, si sottopose a referendum, riconobbe come rappresentanza solo i sindacati che sottoscrissero il contratto. Sia per Confindustria che per le confederazioni sindacali si aprì un periodo di grande discussione. Veniva insieme cancellato il valore della contrattazione centralizzata e si poneva il problema della rappresentanza aziendale sia come sede di contrattazione, sia come riconoscimento dei rappresentanti sindacali.



Cgil e Fiom furono, in quanto non firmatari del contratto, i sindacati più colpiti. Ma si aprì anche qui una dialettica fra sindacato di categoria e confederazione generale sui ruoli e i compiti di rappresentanza. I temi oggi aperti interrogano tutti i sindacati, padronali e dei lavoratori. Da un lato, per quanto riguarda la contrattazione, si cerca di frenare lo spostamento sulle imprese e i territori muovendo un’obiezione strutturale. L’Italia, si sostiene, è fatta per il 90% di piccole imprese: se cancelliamo il contratto nazionale lasciamo senza riferimenti e tutela la maggioranza dei lavoratori del settore privato.

A un’osservazione vera si fa seguire una deduzione sbagliata. In discussione non c’è la volontà di cancellare ogni riferimento nazionale o unitario per categoria. Nessuno vuole riportare nelle articolazioni sindacali quel pasticcio che è stato indotto nelle istituzioni dal decentramento conflittuale fra Stato e regioni introdotto dalla riforma del Titolo quinto. La domanda che sta avanzando, e che trova riscontro in molti accordi già sottoscritti su base aziendale e territoriale, è di avere dentro una cornice nazionale di minimi fissati un nuovo spazio di contrattazione aziendale e/o territoriale.

Il contratto nazionale è diventato, per modalità e contenuti, una coperta troppo stretta o rigida per le relazioni sindacali esistenti nelle diverse realtà del Paese. E questa necessità di avere più ampi spazi di manovra e di contrattazione accomuna imprese e rappresentanze sindacali. Da questa realtà in movimento viene anche la tensione fra confederazioni e sindacati di categoria. La rappresentanza centrale assicurata dalle confederazioni è diventata, assieme alle rigidità della contrattazione nazionale e alla crisi della concertazione governativa, un freno all’innovazione contrattuale e alle nuove forme di rappresentanza aziendale.

Si sta concludendo un ciclo, iniziato a fine anni ’60, che come molte cose in Italia, essendo durato troppo rispetto ai problemi cui dava risposta, rischia di spegnersi senza che da parte dei protagonisti vi sia una piena coscienza di quanto sta avvenendo. Quando le prese di posizione di grandi associazioni di rappresentanza di interessi appaiono sempre più alla maggioranza dei cittadini come iniziative rituali vuote di contenuti, si deve aprire un coraggioso dibattito di autoriforma.

Tornare a porre al centro del proprio agire le spinte da cui vengono queste grandi organizzazioni non si può ridurre alla difesa di un potere che non ha più la forza di realizzare risposte ai bisogni cui doveva rispondere con volontà di servizio. Che anche nel sindacato affiori un moralismo populistico sugli stipendi dei dirigenti indica che si sta perdendo di vista ciò che serve alla società e ci si sta chiudendo in una torre d’avorio dove l’autoreferenzialità prevale sull’essere al servizio dei rappresentati.

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