Recentemente ho ricevuto – come immagino tanti – una comunicazione via mail dall’Inps in merito al lancio del servizio “La Mia Pensione” (sorella gemella dell’analoga iniziativa “busta arancione”, diffusa nei Paesi del Nord Europa), che avrebbe il pregio di informare il lavoratore sulla sua situazione contributiva di oggi e sul pensionamento di domani. Il servizio è senz’altro utile perché fornisce, innanzitutto, un’indicazione sulla data di pensionamento, non sempre così agevolmente deducibile: io, ad esempio, andrò in pensione a fine 2039 (a 69 anni compiuti). Messo di fronte a questo dato, comprensibilmente ma purtroppo il primo della simulazione, non ho potuto evitare un senso di scoramento, constatando come, nel caso della mia generazione, gli anni che ci separano dal pensionamento sembrano non diminuire mai, almeno a partire dal 2004, pur in costanza di lavoro.
Ho iniziato a lavorare nel 1996, quando è entrata in vigore la grande riforma del sistema pensionistico italiano, introdotta dalla Legge 335/1995 (“Riforma Dini”). Veniva disciplinato un nuovo sistema di calcolo pensionistico, basato sui contributi versati nell’arco dell’intera vita lavorativa (metodo contributivo) e non soltanto sulle ultime retribuzioni percepite (metodo retributivo), che non sarebbero state più garantibili a lungo senza gravi squilibri tra popolazione attiva e in quiescenza. Peraltro, la medesima legge prevedeva la possibilità di accesso al pensionamento in un’età compresa tra i 57 e i 65 anni. Per la mia generazione e per quelle future, a ben vedere, non si sarebbe mai dovuto porre un problema di sostenibilità del sistema pensionistico. Invece, dall’Inps apprendo che andrò in pensione a 69 anni, per effetto di regole successive, tra le quali l’adeguamento alla speranza di vita del requisito anagrafico. Quale correttivo di questa situazione si pensa ora di introdurre il “pensionamento flessibile”, consentendo – tra le varie ipotesi – di andare in pensione tra 62 e 69 anni con penalizzazioni progressive al decrescere dell’età.
Tale distorsione è forse collegata al fatto che la Riforma Dini prevedeva un generoso regime transitorio a favore di chi, maturati 18 anni di contribuzione al 31/12/1995, poteva andare tranquillamente in pensione mantenendo le vecchie regole. Naturalmente, quella soglia contributiva fu esito di una decisione politica più che di un ragionamento; così il regime transitorio ha finito per assorbire gran parte dei contributi versati dai lavoratori attivi, benché alcuni autorevoli tecnici nel corso degli anni abbiano più volte sollevato il problema. Purtroppo, per evitare di prendere decisioni impopolari sul piano elettorale, si è pensato semplicemente a spostare il problema sulle spalle delle generazioni future, meno attente per natura ad un evento che si verificherà in tarda età e meno attraenti sul piano elettorale. In questo momento, in cui il Governo si accinge a por mano, per la terza volta negli ultimi quattro anni, alla materia pensionistica, vorrei segnalare due punti che mi stanno a cuore.
In primo luogo, per quanto difficile possa sembrare trovare un’alternativa, ridurre la spesa pensionistica allungando l’età pensionabile o penalizzando il pensionamento anticipato rivela un approccio puramente aritmetico. Escono dalla considerazione alcuni fattori che pure rivestono una certa importanza sul piano sociale. Oggi in certe posizioni lavorative si diventa vecchi troppo precocemente. Ricordo che nel “lontano” 1998, quando lavoravo presso una banca locale di significative dimensioni, vidi un collega in panico perché costretto a traslocare e ad abbandonare la scrivania che era stata ininterrottamente sua per quasi 35 anni di lavoro: inutile dire che su quella scrivania, diversamente dalle altre, non c’era alcun pc, ma una vecchia calcolatrice.
Pochi mesi fa un grosso gruppo bancario ha ingaggiato un manager proveniente dalla Silicon Valley per creare un pool di ricerca e innovazione all’avanguardia. Le strategie possono cambiare da un’azienda all’altra; resta che i ritmi di sviluppo odierni, spesso legati alle nuove tecnologie, non sono nemmeno paragonabili al passato più recente e, a mio avviso, lasceranno sul terreno parecchie persone, tutt’altro che in tarda età, giudicate non più riqualificabili dal management aziendale.
In secondo luogo, occorre tener presente che la fisionomia del lavoro oggi è sempre meno stabile rispetto al passato a causa di cambiamenti dovuti sia a fasi negative come la perdita del lavoro, sia a circostanze positive, come il più frequente presentarsi di opportunità estere, ad esempio, che comportano l’interruzione dell’attività lavorativa nel nostro Paese: la “precarietà” entra ormai in tutti i sensi nella definizione di qualsiasi situazione vissuta. Sul piano pensionistico, ciò comporterà meno entrate contributive e quindi minori livelli di copertura, con l’inevitabile introduzione di nuove misure correttive.
E’ solo per ricordare che avere a che fare con una riforma seria, sulle pensioni o su altro, significa sempre aver a che fare con la gente, non solo con i numeri.