Riforma Pensioni 2015 “Il giusto equilibrio tra flessibilità e conti pubblici deve prevedere che per chi va in pensione con un anticipo tra i quattro e i sei anni, si applichi una penalizzazione del 15%”. Lo osserva Nino Galloni, economista e membro effettivo del collegio dei sindaci dell’Inps. In un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera, il ministro del Welfare Giuliano Poletti qualche giorno fa aveva sottolineato a proposito della flessibilità: “Secondo me non deve essere per forza a costo zero, le penalizzazioni non possono essere insostenibili. Bisognerà fare un ragionamento complessivo nel governo, tenendo a mente che quello non è solo un intervento sulle pensioni. E che, come obiettivo laterale ma non meno importante, ha quello di aiutare l’occupazione giovanile”.
Quale equilibrio va trovato tra flessibilità e penalizzazioni?
Il risparmio che la spesa previdenziale registra nel caso di uscite anticipate è molto più grande del sacrificio che fanno queste persone rinunciando a una parte della loro pensione. Il criterio è che se io ho versato di meno avrò una pensione più bassa. Questo rapporto dovrebbe essere però studiato meglio, perché stiamo assistendo a riduzioni del 30% della pensione a fronte di un anticipo di qualche anno.
E dunque?
Il caso sarebbe diverso se riducessi i versamenti del 30%, e conseguentemente riducessi del 30% anche la pensione. Riducendo i contributi di cinque anni tolgo un settimo della vita lavorativa media, e quindi dovrei fare una decurtazione dell’assegno pensionistico del 15%. C’è una discrepanza tra il risparmio di spesa previdenziale e il corrispondente minor versamento.
Per superare questa discrepanza, quale può essere la giusta percentuale di penalizzazione?
Al 15% in meno di versamenti, cioè tra i quattro e i sei anni in meno di anzianità contributiva, dovrebbe corrispondere un taglio della pensione del 15%. Si potrebbe dunque tagliare la testa al toro ed erogare una pensione sempre proporzionata ai versamenti. Per assurdo, se uno ha versato soltanto un mese gli si dà una pensione di un centesimo.
I sindacati affermano che con il contributivo la penalizzazione è già implicita, e quindi non occorre mettere una penalizzazione ad hoc. E’ un ragionamento che ha senso?
Tutto dipende da quanti anni uno vive. I vecchi sistemi previdenziali sono stati messi in crisi dall’allungamento della speranza di vita. Nei vecchi sistemi esisteva la reversibilità, con un taglio della pensione. Cinquanta anni fa uno andava in pensione a 60 anni, spesso moriva poco dopo, e la figlia nubile e senza lavoro rimaneva pensionata per altri 50 anni. All’epoca la simulazione era questa.
E oggi invece?
E’ ovvio che se si vive fino a 90 anni si dovrà andare a lavorare fino a 70, e non cominciare a 40, altrimenti i bilanci previdenziali non riusciranno a reggere o il calcolo della pensione dovrà essere fatto in un altro modo.
Il part time per i lavoratori anziani può favorire una staffetta generazionale?
La staffetta generazionale può dare sollievo ai giovani, e se poi penalizza le pensioni degli anziani è un cane che si morde la coda. Ciò che dobbiamo fare è andare verso la piena occupazione, pensare che ci sia una mobilità di mansioni e professioni a seconda non solo delle qualificazioni professionali ma anche dell’età. Si entrerà quindi presto nel mondo del lavoro, si lavorerà fino a tardi, i contributi potranno essere ridotti ma alla fine ci sarà equilibrio tra la massa di questi ultimi e la somma della loro valorizzazione.
Quindi non ci sono ricette facili?
Se non riusciamo a fare crescere né l’occupazione né i redditi, è ovvio che i contributi non saranno sufficienti a garantire delle pensioni decenti. Oppure avremo un problema finanziario, come stavamo rischiando di avere con il vecchio sistema a ripartizione, o avremo un problema sociale come quelli causati dal sistema retributivo.
(Pietro Vernizzi)