L’anno che si è appena aperto ci consegna le cose rimaste in sospeso nell’anno che si è chiuso da poco e nella banalità di questa affermazione è contenuto un dato della realtà oggettivo e ineludibile: i problemi difficilmente si risolvono da soli, in particolare se essi sono frutto dell’azione umana, a differenza delle dinamiche ed eventi collegati alla biologia, all’anagrafe “del tempo”, alla fisica.
Per esempio, la meteorologia si sta assumendo oneri e meriti che qualche anno fa erano impensabili in materia di PM10 e altri fattori che rendevano l’aria pesante e irrespirabile nelle nostre concentrazioni urbane: in questo caso il tempo si sta incaricando di darci una mano in vicende che, altrimenti, non saremmo in grado di risolvere, se non a prezzi di cui non saremmo capaci di pagare. E qui il discorso ci porterebbe da altre parti, molto lontane e comunque tali da suscitare passioni ed emozioni alquanto intense.
Per stare più prosaicamente al mestiere che conosciamo, quando parliamo di cose sospese ci riferiamo, ad esempio, a una questione che rimane sullo sfondo dei nostri italici scenari e di cui, spesso, facciamo fatica a percepirne gli sbocchi: la vicenda sindacale e della regolazione del lavoro nel nostro Paese.
Il Contratto nazionale dei metalmeccanici, da sempre faro e spia delle relazioni industriali italiane, non si è ancora rinnovato e non si capisce quando ciò avverrà: si sa solo che, a differenza degli scorsi anni, l’associazione settoriale dei datori di lavoro aderente a Confindustria, la Federmeccanica, non appare più disponibile a convenire le intese solo con una parte dei sindacati (Fim-Cisl e Uilm-Uil, oltre alle altre sigle degli autonomi) ovvero senza la potente Fiom-Cgil. Anzi, la Federmeccanica ha avanzato alcune condizioni irrinunciabili, alcune relativamente nuove, quali, ad esempio, il riconoscimento di futuri adeguamenti retributivi solo a posteriori ovvero dopo l’eventuale registrazione di un tasso minimo d’inflazione; in mancanza dei requisiti di “svalutazione” non si applicherebbero aumenti salariali, se non pattuiti in azienda, frutto di reali e accertati incrementi di produttività del lavoro e di redditività delle imprese.
In alcuni tavoli paralleli sono in corso contatti e incontri a diversi livelli, in particolare tra esponenti delle confederazioni che rappresentano i diversi settori produttivi, per cercare di delineare nuove cornici entro cui rinnovare i diversi contratti nazionali di settore, per non lasciare le singole federazioni con l’onere di rinnovi senza riferimenti generali normativi ed economici a valere per tutti (il cosiddetto cerino acceso in mano…).
È pur vero che taluni settori stanno procedendo nei rinnovi contrattuali senza avere modelli generali a cui ispirarsi (chimici, gomma e plastica e altri), figli di una tradizione sindacale che, in modo silente ma concreto, raggiunge accordi e intese su modalità e regole del lavoro, scambiando flessibilità e retribuzione, delineando un quadro più moderno di relazioni tra lavoratori e imprese; ma questa tradizione non è generalizzabile ai diversi settori, per ragioni storiche e culturali, ma anche per differenti orientamenti politico-sindacali interni ai diversi mondi confindustriali e sindacali.
Dietro l’angolo vi è un probabile intervento legislativo, un po’ figlio delle generazioni politiche al potere oggi, che intendono avocare a sé le regole delle dinamiche sociali, e un po’ per pigrizia delle parti sociali stesse, attardate nelle proprie “periferie burocratiche” e incapaci di fare i conti con la velocità richiesta dai processi attuali e indotti anche dalla competizione globale in cui siamo immersi.
Una legge che potrebbe avere una duplice finalità, da una parte con l’introduzione del cosiddetto salario minimo legale anche nel nostro Paese, di fatto alternativo ai trattamenti retributivi dei diversi contratti nazionali, mettendo “in sonno” il ruolo delle rappresentanze sia sindacali che dei datori di lavoro; dall’altra potrebbe riguardare le rappresentanze stesse ovvero le condizioni di rappresentatività per pattuire i contratti e per renderli valevoli per tutti i lavoratori e imprese (anche se non associate alle diverse organizzazioni di categoria), applicando in questo modo l’art. 39 della Costituzione rimasto inattuato fin dal suo apparire nella nostra carta.
Un quadro che, almeno a parole, nessuno auspica in quanto si metterebbero le mani nelle associazioni e nel loro agire concreto, compromettendo l’autonomia dell’azione del privato-sociale, una lesione all’ordinamento democratico; di fatto è certamente un vulnus che, tuttavia, sarebbe indotto, almeno in parte, proprio dall’incapacità di autoregolarsi, anche per le contrapposizioni esistenti sia in casa sindacale che dei diversi datori di lavoro.
Infatti, si parla spesso dei sindacati ma meno dei datori di lavoro e dei loro altrettanti interessi contrapposti: pensiamo, ad esempio, alle diverse dinamiche della distribuzione commerciale (orari di apertura, regole dei prezzi e dintorni), alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni nell’uso delle reti infrastrutturali (ferroviarie, elettriche, autostradali, ecc.), non tutto è sempre facilmente sintetizzabile in regole comuni e condivise, in particolare in materia di lavoro.
Insomma, Renzi è un “diavoletto” per tutti, ma spesso l’inferno ce lo si va a cercare: vedremo cosa ci riserverà su queste materie il 2016 appena dischiuso, un po’ speciale per essere bisestile e anche per l’anticipo dei famosi sessanta secondi di mamma Rai, leggermente alterata per il mancato incasso del canone in un sol colpo.