Nel film Quo Vado? di Checco Zalone, il tema del funzionario pubblico “parassitario” che gode di diritti e condizioni lavorative invidiabili dalla maggioranza dei lavoratipro privati e dai non occupati purtroppo rappresenta sempre più una visione realistica della società italiana. In termini di “desiderabilità” sociale, ottenere il “posto fisso” nella Pa rappresenta una grande aspirazione per la maggioranza dei giovani italiani, se poi si arriva a un ruolo di Quadro o addirittura alla Direzione vuol dire che si è fatta “tombola”: agevolazioni, potere e diritti da far invidia all’alta borghesia di inizio ‘800. Non è un caso che anche per un posto di “bassa” manovalanza nella Pubblica amministrazione si presentino in decine di migliaia di giovani, nella stragrande maggioranza dei casi sovra-istruiti per quella posizione.
Le donne sembrano preferire questo tipo di lavoro, perché garantisce una sicurezza in termini di conciliazione tra cura e lavoro nettamente migliore rispetto al settore privato e, soprattutto, non ci sono rischi per la carriera. Il merito è un termine misterioso, in particolare il calcolo dei premi di produzione è “sconosciuto”, quasi mai in relazione alla “produttività” (anche questo termine completamente sconosciuto), spesso “auto-valutato” mai frutto di comparazioni o verifiche indipendenti (inutile dire che anche questi ultimi due termini sono anche loro sconosciuti).
Diciamolo, il lavoro pubblico è visto dall’esterno come il “paradiso in terra”, soprattutto tra i lavoratori autonomi, costretti nella maggioranza dei casi alla stipula di costose polizze assicurative per eventuali malattie o eventuali ammortizzatori sociali. In termini di contrattazione, i dipendenti pubblici, con la loro moltitudine di sigle sindacali, sono riusciti a ottenere diritti e riconoscimenti che i dipendenti del settore privato non vedranno mai e nel Mezzogiorno, grazie all’effetto della contrattazione nazionale, sono diventati la nuova classe media (quasi unica).
In tema di riforma della Pubblica amministrazione, i tentativi di svolta sono stati in questi anni quasi sempre marginali. Durante una delle recessioni peggiori dell’economia del nostro Paese, una possibile soluzione sarebbe stata quella di licenziare almeno 200 mila dipendenti pubblici e attuare una riduzione proporzionale di tutti gli stipendi, mentre le alternative attuate per risparmiare sono state a mio avviso tutte sbagliate. Innanzitutto sono stati bloccati o non rinnovati i contratti dei lavoratori atipici, spesso in alcuni uffici gli unici “competenti” che permettevano alla struttura di sopravvivere. In altri casi, c’è stato il blocco dell’indicizzazione degli stipendi, anche questo palesemente sbagliato perché il messaggio politico di questa azione è stata quella di non vedere il merito dei propri dipendenti. Infine, l’assenza di turn-over, ovvero la mancata sostituzione dei lavoratori andati in pensione comporta che abbiamo una delle pubbliche amministrazioni più vecchie in Europa, con una scarsa padronanza della lingua inglese e/o delle competenze informatiche necessarie per sviluppare nuove piattaforme.
Il risultato è stato quello che la quasi totalità delle risorse finisce sempre di più in stipendi (trasformati in molti casi in veri e propri ammortizzatori sociali d’oro) e quasi mai in investimenti: se andiamo avanti così, nel giro di pochi anni avremo una delle peggiori amministrazioni pubbliche d’Europa. Inoltre, il cuore delle riforme, la più nota delle quali è stata quella di Brunetta, era contro il “nullafacente”, tema certamente condivisibile, ma assolutamente sbagliato quando si parla della riforma della Pubblica amministrazione.
In tal senso, se è doveroso voler licenziare il dipendente che in mutande timbra e poi torna a dormire o quello che timbra per i suoi 10 colleghi – è bene ricordare che la norma esiste già ed è molto chiara e semmai va verificata la sua concreta applicazione (sempre da un valutatore indipendente fuori dalla Pa) -, purtroppo non si affronta il vero centro della questione, ma solo la punta dell’iceberg. Una seria riforma dovrebbe porsi il dubbio se quello stesso ufficio sia in grado di andare avanti anche con la metà dei dipendenti. Il sospetto in effetti è la “sovra-dimensione” dei dipendenti in alcune funzioni/uffici rispetto ad altre e, soprattutto, rispetto al fatto che oggi alcune attività possano passare completamente all’interno di piattaforme informative via web. Questa, ad esempio, è stata la grande differenza con il settore privato, dove centinaia di migliaia di persone, per effetto delle numerose ristrutturazioni aziendali o fallimenti, sono rimaste a casa, con una notevole difficoltà di ricollocarsi nel mercato del lavoro e alle quali mancano ancora diversi anni dalla pensione.
Nei fatti la grande disparità di trattamento è avvenuta proprio in questi ultimi anni: da una parte i dipendenti privati hanno visto assottigliarsi i loro diritti e in certo modo preoccuparsi per il loro futuro, dall’altra, nonostante una crisi economica senza precedenti, il massimo delle conseguenze è stato il blocco dell’indicizzazione; dai diciamolo: i dipendenti pubblici devono ammettere che è un po’ pochino come programma di “austerità”.
La situazione più irrazionale (o meglio gattopardesca) è avvenuta nei confronti dei dipendenti delle Province; perché una vera riforma e anche azione politica avrebbe accompagnato al taglio delle risorse, un chiaro programma di razionalizzazione con il licenziamento collettivo di parte del personale (attuando l’intervento drastico, come abbiamo visto con le pensioni), mentre il risultato è stato che una parte di queste persone sono state spostate in altri uffici, altri rimarranno perché le Province non sono state abolite ma trasformate in Aree Vaste o Città Metropolitane e altri ancora sono finiti in mobilità. Quest’ultimi però si trovano in un “limbo”, tra l’altro sono finiti in queste liste senza veri criteri di merito o per sanzioni legate alla bassa produttività (diciamo: ci sono finiti a “caso”) in cui nessuno ancora sa dire che fine faranno, dove andranno e cosa né sarà di loro.
Ora, se per qualche decina di migliaia di persone si è fatto un tale casino, producendo tra le varie cose il “dissesto” di quasi tutte le Province (d’altronde se in questi anni si tagliano le risorse, ma non gli stipendi del personale, la struttura per ovvie ragioni va in perdita), figuriamoci se l’attuale Governo, ma anche uno penta-stellato o come abbiamo visto nel passato di centro-destra, sarà mai capaci di tagliare ben 200 mila dipendenti. E mi fermo qui, sarebbe troppo in questo contributo parlare anche delle partecipate.
Avendo già affrontato questo argomento, sono già consapevole di tutta una serie di contestazioni: 1) il fatto che non esiste una sola Pa, ma tante strutture e professioni diverse, in contesti diversi e difficili da valutare; 2) in confronto con altri paesi, i dipendenti della Pa sono di meno e sotto-dimensionati (anche se spesso il confronto non considera i dipendenti delle partecipate); 3) rispetto alla visione “stereotipata” descritta da Checco Zalone, esiste personale che ogni giorno lavora con passione e dove gli impegni sono nettamente “ridondanti” rispetto allo stipendio percepito.
Queste tre critiche sono quelle più rilevanti, lo dico chiaramente sono tutte e tre corrette, non mi permetto neppure di criticare, però contestare con queste osservazioni le considerazioni da me esposte precedentemente non aiuta minimamente ad avviare una seria riforma della Pa. Infatti, è proprio da una rielaborazione di questo dibattito che può nascere una riforma seria della Pubblica amministrazione. Proprio perché la Pa presenta mille sfaccettature, possiamo considerare in estrema sintesi la sua struttura in tre grandi aree: la “bassa” manovalanza; le figure tecniche medio-qualificate; il livello iper-specializzato/dirigenziale (ovviamente sarebbe da differenziare per settore di spesa pubblica).
Proprio nei confronti della “bassa” manovalanza nasce la necessità di operare in maniera prevalente l’azione di razionalizzazione. Tale valutazione, lo sottolineo, spetta rigorosamente ai dirigenti, i quali si assumeranno la responsabilità dei licenziamenti (pena la perdita del loro stesso posto) garantendo comunque l’efficienza, dimostrata esclusivamente tramite comparazioni tra i vari uffici. Ovviamente la proposta piacerà tantissimo ai dipendenti privati che in molti casi hanno sempre sperimentato tale azione, ma risulterà impensabile per la tecnostruttura statale.
In questa sede, ritengo che all’alba del 2016 sia venuta l’esigenza di considerare la figura di dipendenti pubblici non più una struttura unica e uniforme, ma è bene considerare che le garanzie di autonomia e la presenza di particolari diritti sono più che giustificati per alcune figure professionali, ma non per tutte quelle presenti nella Pa.
In conclusione, il taglio di un così consistente numero di dipendenti pubblici permetterebbe in cinque anni al Governo di gestire quasi 40-50 miliardi di euro, in modo da: realizzare una riduzione seppur piccola del decifit; investire nel rilancio della domanda aggregata (rilancio dell’edilizia pubblica e scolastica); finanziare un fondo per la non-autosufficienza (creando una domanda di lavoro nel settore della cura); finanziare un Reddito di base di natura familiare; garantire una migliore polizza sanitaria e sociale ai lavoratori autonomi; predisporre una maggiore flessibilità pensionistica; realizzare un programma di sostegno economico per gli imprenditori in crisi; e, infine, elaborare un programma di agevolazione finanziaria per giovani start-up.