Benché possa sembrare il contrario, il 2015 potrà essere ricordato anche sul piano pensionistico. Non si possono non menzionare gli effetti della Sentenza (n. 70/2015) con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la cosiddetta “Riforma Fornero”, nella parte in cui ha previsto il blocco parziale della perequazione automatica delle pensioni anche di modesto importo per il 2012 e il 2013. Il costo stimato del completo ristoro (comprensivo dell’effetto finanziario del ricalcolo della pensione dovuta in futuro sull’importo corretto) sarebbe stato troppo oneroso per lo Stato italiano, che ha trovato una soluzione “politica”, prevedendo, anche qui sul filo della legittimità costituzionale, una restituzione parziale escludendo comunque gli importi più elevati.



Anche il 2016 si preannuncia sensibile sul tema pensionistico, pur escludendo eventuali interventi strutturali, al momento non ancora programmati, focalizzati sul “pensionamento flessibile” tra iniziative parlamentari e le proposte Boeri. Purtroppo non si tratta di notizie particolarmente buone, tolta la settima salvaguardia degli esodati varata ora dalla Legge di stabilità. Non essendo stati apportati correttivi, dal 1° gennaio sono scattati l’incremento dell’età pensionabile per le donne, l’adeguamento alla speranza di vita (4 mesi per tutti) e la revisione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo. 



Per le donne dipendenti del settore privato il pensionamento di vecchiaia passerà dai 63 anni e 9 mesi fino a fine 2015 a 65 anni e 7 mesi (incluso l’adeguamento alla speranza di vita), mentre per le autonome l’età sarà di 66 anni e un mese. È vero che la Legge di stabilità ha prorogato la cosiddetta “Opzione donna”, ossia la possibilità per le lavoratrici dipendenti che compiono 57 anni e 3 mesi entro il 2015 (58 anni e 3 mesi le autonome) e 35 di contributi di uscire prima dal mondo del lavoro a condizione che optino per il calcolo integralmente con il sistema contributivo (meno vantaggioso del sistema retributivo in vigore fino al 31/12/2006 in via transitoria e dall’1/01/2012 per tutti), ma il peso dell’età, che più o meno ogni tre anni aumenta di circa 4 mesi, rischia di farsi sentire un po’ troppo. Pare che la classe femminile 1953 sia nata sotto una cattiva stella: nel 2018, quando le donne di quella generazione compiranno 65 anni e 7 mesi, scatteranno nuovi incrementi.



Gli uomini sono decisamente più fortunati: per loro l’età pensionabile aumenta solo di 4 mesi (66 anni e sette mesi). Nel 2016 scattano anche i nuovi coefficienti di trasformazione del montante contributivo. La sola quota contributiva dell’importo pensionistico risulterà più bassa perché moltiplicata per un coefficiente inferiore. Secondo stime Inps diffuse dalla stampa, per gli uomini la riduzione del coefficiente rispetto agli attuali 66 anni e 3 mesi sarà dello 0,99%, mentre per le donne del settore privato la riduzione verrà ampiamente ricompensata dai 22 mesi di lavoro in più (+4,09%).

In questo contesto di automatismi legislativi e attuariali, la Legge di stabilità ha introdotto per il settore privato, in via facoltativa e a determinate condizioni, una specifica disciplina transitoria, relativa alla trasformazione da tempo pieno a tempo parziale del rapporto di lavoro subordinato, con copertura pensionistica figurativa per la quota di retribuzione perduta e con la corresponsione al dipendente, da parte del datore di lavoro, di una somma pari alla contribuzione pensionistica che sarebbe stata a carico di quest’ultimo (relativa alla prestazione lavorativa non effettuata). Dato che in fondo non ci guadagna nessuno (né il lavoratore, né l’azienda, né lo Stato), non credo sarà scelta da molti: lo scarso stanziamento almeno per il 2016 (60 milioni di euro) dimostrerebbe che in fondo neanche il Governo ci crede sul serio.

In tutto questo, il Ministro Poletti in una recente intervista, a commento delle misure sull’invecchiamento attivo contenute nella Legge di stabilità, si sarebbe lasciato sfuggire una frase, a mio avviso, assai significativa: “Possiamo pensare che una stessa persona possa fare lo stesso lavoro nelle stesse modalità a 30 come a 60 anni? Io credo di no. E non possiamo nemmeno pensare che si lavori intensamente fino all’ultimo giorno e poi quello successivo uno si ritrovi ad andare al parco”. Al di là dell’immagine del parco, che certamente non mi entusiasma, il problema serio è la qualità odierna del lavoro: grosse aziende multinazionali di consulenza mandano tutti a casa al massimo a 60 anni, indipendentemente dalla maturazione dei requisiti pensionistici, assicurando spesso laute buone uscite che compensano l’assenza dello stipendio e della pensione. I ritmi imposti oggi dall’innovazione tecnologica riducono ulteriormente tale limite di età rischiando di lasciare macerie dietro di sé negli anni a venire.

Sono temi che sfuggono all’approccio calcolistico, attuariale o elettorale, che purtroppo pare l’unico catalizzatore del dibattito politico di oggi.