Anche in questo mese, come negli ultimi, ci hanno rassegnato dati relativi alla disoccupazione sostenuti da molte parole contorte, e in verità anche un po’ confuse. L’unica cosa chiara che emerge è che ci sono segni che indicano la ripresa. È l’effetto – dicono i maligni – della collaborazione coordinata tra enti controllati dal Governo e l’Istat, per la produzione di dati statistici che mostrino l’aumento dell’occupazione. L’ottimismo sul futuro prossimo sarebbe fondato sugli zero virgola, che si otterrebbero dal Jobs Act come espressione della migliore azione benefica del governo Renzi. Lo ripete il Premier e gli fa immediatamente eco il Ministro Poletti: ogni occasione è buona per raccontare un supposto successo dell’esecutivo.
Ma dietro tutte le argomentazioni di ripresa, c’è un’Italia del lavoro molto diversa, ancora piena di difficoltà: tante le aziende che chiudono; falliscono; delocalizzano; in amministrazione controllata. E poi quanti i lavoratori licenziati, in cassa integrazione, a orario ridotto? È l’effetto di mancate politiche adatte per i tempi che attraversiamo, di politiche governative che quando vanno bene arrivano all’ultimo momento per proporre soluzioni assistenziali.
È la lunga agonia di molte produzioni fiaccate dalla contrazione della domanda interna ed estera, indebolite fortemente dalla concorrenza da costo fiscale, da servizi esteri meno costosi, da costo del lavoro più basso, dalla mancata innovazione di prodotto e di processo. Naturalmente di ciò non c’è traccia nel dibattito nostrano; non c’è una politica coordinata e consapevole, non c’è volontà di spostare l’attenzione sulle cose concrete.
Una delle ultime tante aziende in sofferenza – la Saeco di Bologna – ben racconta i nostri mali: Philips, che ha acquistato il noto marchio italiano di macchine per il caffè appena 6 anni fa, ora vuole spostare buona parte della produzione nell’impianto della stessa multinazionale in Romania. Un impianto più grande in grado di produrre volumi 5 volte superiori all’opificio bolognese con progettazioni per la produzione di macchine di alta gamma. Il Presidente della Regione Emilia Romagna e lo stesso Ministro del Lavoro hanno giustamente chiesto un confronto con la proprietà, offrendo anche sostegni di vario tipo. Chi conosce il mondo dovrebbe sapere che quando le cose vanno così è segno che si è arrivati a chiudere la stalla quando i buoi già sono usciti e non si può fare più nulla.
Se altri paesi offrono bassi salari, noi dovremmo abbattere i costi dei trasporti con infrastrutture e logistica efficienti. Se offrono bassi costi fiscali, dovremmo abbassarli anche noi e offrire servizi amministrativi e di sostegno più moderni e pronti. Si potrebbe continuare all’infinito per dire che è possibile arrestare l’emorragia di posti di lavoro, alla condizione di un impegno giorno per giorno e con una strategia di trasformazione in qualità delle nostre produzioni e dei contesti ove sono collocati.
È doloroso dirci che nulla di ciò anima la nostra classe dirigente; quando va bene, offrono ammortizzatori, oppure danno vita a teatrini contro qualcuno. Ma questi non sono più tempi per cicale. La perdita della domanda estera, dovuta alla striminzita crescita Usa e alla grave difficoltà in cui si trovano le economie emergenti a causa del forte ribasso delle materie prime di cui dispongono, deve essere compensata dall’aumento della domanda aggregata interna. Perché questo avvenga occorre ridurre le tasse alle famiglie, tagliare drasticamente la spesa pubblica improduttiva in modo tale da incrementare le politiche anticicliche a partire da quelle infrastrutturali, per arrivare alle bonifiche ambientali, a grandi piani rivolti alla istruzione.
C’è da sperare che quando ai primi di febbraio ci offriranno la lettura dei nuovi dati occupazionali – che possiamo da adesso immaginare non saranno molto diversi da quelli di questi giorni – il Presidente del Consiglio chioserà il tutto nel spiegarci cosa intenderà fare per l’incremento della domanda aggregata. Se dovesse aumentare, le imprese potranno godere della maggiore vivacità economica e così l’occupazione. O no?