In queste settimane si susseguono analisi e commenti sullo schema di decreto legislativo già approvato in via preliminare dal Consiglio del ministri del 25 agosto scorso, riguardante la riforma della dirigenza pubblica italiana. Si tratta, probabilmente, della più attesa e controversa tra le 14 deleghe legislative previste dalla legge sulla riorganizzazione della Pubblica amministrazione del 2015, meglio conosciuta come “riforma Madia”, dal cui esercizio scaturirà, a soli 7 anni dall’ultima “rivoluzione” (del Ministro Brunetta), quella che si annuncia come l’innovativa e stabile evoluzione di un settore tutt’altro che secondario per le sfide sociali ed economiche che il nostro Paese è chiamato a fronteggiare nel contesto europeo e globale.



Mentre il decreto sta completando il suo percorso parlamentare in vista dei preventivi pareri delle Commissioni competenti e delle eventuali proposte di modifica, sulle quali l’ultima parola resterà comunque al Governo in sede di adozione definitiva, è lecito domandarsi come e in che cosa la nuova fisionomia del management pubblico italiano, frutto della riforma, muterà il sofferto rapporto di cittadini, corpi intermedi e imprese con la Pubblica amministrazione. È risaputo come il confronto su questo tema si esaurisca quasi del tutto, ormai, in arroventati dibattiti televisivi e deprimenti semplificazioni concettuali, all’insegna di un logoro repertorio utilizzato nel tentativo, peraltro non sempre riuscito, di cavalcare a fini elettorali il diffuso malcontento popolare che alligna verso le tante storture della nostra burocrazia.



Tra furbetti del cartellino e tangentisti alla ribalta, che purtroppo non mancano mai, l’argomento ricorrente è quello di addossare su dipendenti ignavi o corrotti (meglio se dirigenti) il peso di tutto ciò che non funziona negli uffici pubblici omettendo, di solito, motivati riferimenti critici alla produzione legislativa del nostro Paese che, per mole e complicazione, può assurgere a vero e proprio fattore criminogeno proprio per chi quelle leggi dovrebbe poi applicarle, come ha richiamato quest’anno il Presidente della Corte dei Conti durante l’inaugurazione dell’Anno giudiziario.



Su questo terreno la riforma promette di realizzare mutamenti epocali, proprio a partire dal ruolo della dirigenza. Procedure annuali di reclutamento prevalentemente incentrate sul corso concorso selettivo di formazione, puntuale procedimentalizzazione del conferimento degli incarichi dirigenziali, precisi obblighi formativi anche in funzione docente e ampia rivisitazione dei sistemi sanzionatori e premiali costituiscono, certamente, alcune delle novità attraverso le quali affrontare in termini risolutivi nodi assai rilevanti per la futura qualità della nostra amministrazione. Basti pensare, sotto questo profilo, a temi come il riconoscimento del merito, l’innalzamento dello standard di professionalizzazione o la necessità di un travaso generazionale, ormai irrinunciabile, in un comparto dirigenziale pubblico formato in prevalenza da ultracinquantenni.

Il vero focus del decreto sembra, però, risiedere altrove e, in particolare, nel processo di vera e propria “transizione culturale”, ancor prima che giuridica e organizzativa, intimamente sotteso all’impianto dell’intera riforma, attraverso il quale quest’ultima s’intende pervenire a un radicale mutamento dello status e della fisionomia stessa della funzione dirigenziale pubblica. Per comprenderlo è necessario riferirsi ad aspetti di natura più eminentemente tecnica del decreto che, proprio in quanto poco appetibili sul piano mediatico, meno si prestano ad attrarre l’attenzione dei non addetti ai lavori.

Com’è già stato puntualmente osservato proprio su queste pagine in seno a precedenti commenti, il decreto delegato in corso di approvazione mira alla costituzione di un mercato (ma meglio sarebbe dire un quasi-mercato) unico della dirigenza pubblica, pur con l’esclusione di settori assai rilevanti, anche in chiave quantitativa, come la dirigenza scolastica e quella del Servizio sanitario nazionale.

Lo strumento previsto per realizzare tale obiettivo è quello di tre Ruoli nazionali (sul reale significato di questo termine sarà necessario tornare) riservati rispettivamente alla dirigenza statale, a quella regionale e a quella locale, nei quali inquadrare, secondo la rispettiva amministrazione di appartenenza, gli attuali dirigenti pubblici. Questi potranno, poi, concorrere al conferimento di qualsiasi incarico dirigenziale pubblico, indipendentemente dalla corrispondenza tra Ruolo di appartenenza e tipologia dell’amministrazione che conferisce l’incarico.

Per intenderci, un dirigente regionale potrà tranquillamente concorrere al conferimento di un incarico dirigenziale statale o locale e viceversa, proprio in virtù del principio di unicità della qualifica dirigenziale espressamente sancito nel decreto. Tuttavia è proprio questo aspetto a determinare la necessità di un ulteriore affondo, indispensabile per comprendere a cosa si vuole realmente approdare.

Sappiamo che a seguito dalla cosiddetta privatizzazione del rapporto di impiego, intervenuta con la riforma Cassese nel 1993, l’amministrazione (ministero, regione o comune che sia) che bandisce un concorso stipula poi col vincitore, attraverso la sua assunzione, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, destinato a segnare l’appartenenza del dipendente a quell’amministrazione, pur in presenza delle possibili e temporanee modifiche del rapporto stesso ammesse dalla legge (aspettative, comandi, collocamenti fuori ruolo, ecc.). Ma per il dirigente non sarà più così.

Proprio il decreto legislativo in corso di adozione s’incarica di prevedere espressamente, infatti, che il rapporto di lavoro di ciascun dirigente venga sì costituito con contratto a tempo indeterminato stipulato con l’amministrazione che lo assume, precisando tuttavia, subito dopo, che il successivo conferimento di un diverso incarico dirigenziale da parte di altra amministrazione comporterà la cessione a quest’ultima del medesimo rapporto contrattuale a tempo indeterminato, ferma restando la collocazione del dirigente stesso nel Ruolo nazionale di appartenenza.

In un simile scenario due, più di altri, sono pertanto gli elementi che tenderanno a caratterizzare quella che si annuncia come una vera e propria “mutazione genetica” dello status dirigenziale pubblico nel nostro Paese. Il primo è la fine dello stabile legame con un’amministrazione di appartenenza quale fattore cruciale, sino a oggi, nel determinarsi di un’autocoscienza professionale riconoscibile anche all’esterno (sono un dirigente del comune di… o del ministero del….). Il secondo elemento (diretta conseguenza del primo) è dato dalla considerazione, di portata tutt’altro che nominalistica, secondo la quale ciò che il decreto chiama Ruolo (evocando a una prima lettura tutta la densità tecnico-giuridica che questo termine comporta) costituisce, in realtà, un Albo abilitante allo svolgimento dei diversi compiti propri della dirigenza. Questa sarà chiamata, pertanto, a proporsi in termini competitivi sul mercato della Pubblica amministrazione italiana, pur se attraverso regole e procedure predefinite e con alcune limitate garanzie di atterraggio morbido nel caso di progressiva espulsione dal mercato stesso.

Quali saranno, allora, fattori critici di successo necessari in questa competizione, per non rischiare di finire “fuori mercato”? Fedeltà politica al governo di turno, articolati curricula costruiti al netto di capacità o attitudini professionali effettivamente dimostrate o la verifica di esperienze maturate sul campo e valutate mediante modelli evoluti, in grado di rilevare l’outcome delle azioni prodotte, anche attraverso l’indispensabile coinvolgimento degli stakeolder pubblici e privati di riferimento?

Si tratta di interrogativi la cui risposta, ben al di là delle formulazioni di principio sui criteri di conferimento degli incarichi e sulla qualificazione degli organismi collegiali chiamati a declinarli, non è certo reperibile tra gli articoli del decreto, ma piuttosto nei comportamenti di quanti saranno chiamati a darvi concreta applicazione.

È vero che questa svolta a spiccata matrice aziendalistica scaturisce dal consolidarsi di una ben precisa lettura logico-giuridica del processo di legittimazione democratica secondo la quale c’è un governo (o un organo di vertice politico) indirettamente o direttamente espresso dalla volontà popolare a cui la dirigenza deve rispondere affinché il suo agire professionale sia posto effettivamente a servizio della collettività, così da sottrarsi alle dinamiche di un’interessata autoreferenzialità e alle spinte di autoconservazione tipiche di qualsiasi casta.

Ma anche in questa cornice, che oblitera l’impostazione precedente a cui s’impronta ancora largamente la nostra amministrazione pubblica, costituita da una funzione burocratica posta a presidio tecnico di legalità rispetto ai possibili abusi del potere, si tratta di comprendere chi sarà il vero azionista di riferimento rispetto a cui parametrare la propria performance dirigenziale: il vertice politico di turno della propria amministrazione, in quanto unico soggetto in grado di offrire una chance di futuro collocamento nel mercato professionale alla scadenza dell’incarico, ovvero la collettività sociale nel cui servizio l’amministrazione stessa (vertice politico e dirigenza) trova il suo funzionale e finalistico riferimento?

L’interrogativo non è di poco conto e dalla sua risoluzione pratica dipenderà, in larga misura, il vero futuro di quel cambiamento che il decreto intende realizzare, così come quello relativo alla ricomposizione di una virtuosa alleanza nei rapporti tra amministrazione pubblica e singoli cittadini, corpi intermedi e imprese. Appare evidente che sulle diverse opzioni tecniche utili a sciogliere in termini appropriati la questione appena indicata sussistono, ovviamente, margini significativi di opinabilità e di confronto che lo stesso testo del decreto consente, pur dentro vincoli normativi chiaramente tracciati.

Smarrire, però, la centralità del fattore umano in tale processo di cambiamento potrebbe risultare davvero esiziale. Argomenti sensibili come il rapporto tra politica e dirigenza pubblica, la valorizzazione di una reale professionalità e l’interesse alla valutazione dei risultati prodotti costituiscono, infatti, altrettante frontiere in cui si gioca tutto il senso di una tensione ideale al bene comune che, pur nella distinzione delle funzioni a cui ciascuno è chiamato, non può essere prodotta o supplita da sistemi organizzativi tanto perfetti “che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono”.

In questo senso l’entrata in vigore del decreto può davvero costituire una grande occasione per mettere di fronte alla propria responsabilità tanto la politica che la dirigenza, chiamando in particolare quest’ultima a un’inedita consapevolezza di quella che non sarà più l’appartenenza a un’amministrazione o a un ente bensì a una vera e propria “comunità professionale”.

Investire, in chiave motivazionale, sul valore etico e professionalizzante di tale vincolo comunitario può davvero costituire un fattore decisivo per il salto di qualità che necessita nella relazione di quanti operano nel “palazzo” a servizio di quanti ne stanno al di fuori, promuovendo nei primi la rinnovata consapevolezza, prima che il richiamo al mero obbligo contrattuale, di essere chiamati ogni giorno a concorrere, col proprio lavoro, alla crescita sociale ed economica di una città, così come di una regione o di un’intera nazione.

Condizione essenziale affinché il decreto non finisca, invece, per tradire se stesso in fase attuativa, segnando l’appiattimento alle contingenze di una politica di corto respiro, con tutti gli inevitabili riflessi sulle condotte proprie della dirigenza, rimane quella di riconoscere che anche nel settore pubblico esiste un’emergenza educativa da affrontare. In questa direzione occorre guardare con estremo favore, ad esempio, alle disposizioni del decreto riguardanti la trasformazione della Scuola nazionale dell’amministrazione in una vera e propria Agenzia, che dovrà vincolare, peraltro, la propria configurazione organizzativa alla previa interlocuzione con istituzioni nazionali e internazionali di riconosciuto prestigio operanti nel settore.

Ma l’iniziativa pubblica, pur indispensabile, non può di certo esaurire l’insieme degli attori che necessitano per promuovere e sostenere un simile percorso educativo. Per quest’ultimo può risultare davvero determinante, infatti, il protagonismo sociale e scientifico di soggetti diversi che, scevri dalla difesa di interessi di casta, tendano a configurarsi invece, nell’inscindibile mix di patrimonio ideale condiviso e dimensione tecnico-sicientifica, quali ambiti educanti proprio in quanto permanentemente orientati al confronto e alla valutazione riguardanti esperienze professionali in atto, anche attraverso il coinvolgimento, anche in chiave critica, degli stessi stakeholder esterni all’amministrazione.

È questa “conversione” dello sguardo nei riguardi di un mondo certamente complesso e contraddittorio come quella del lavoro pubblico a costituire, probabilmente, il primo e più elementare passaggio necessario per garantire un’attuazione della riforma che non intenda tradirne lo spirito e le finalità dichiarate.