Ormai è come aver a che fare con le tasse o con altre, fastidiose, incombenze rituali, quali, per esempio, farsi la barba al mattino, e ogni mattino che Dio ha fatto, e questo finché… Vabbè, il finché lo sappiamo tutti. Solo che invece di qualche inestetica peluria sul viso, qui stiamo parlando dei “soliti” commenti sul “solito” mercato del lavoro per finire al “solito” Jobs Act.



Quindi rieccoci, davanti all’abituale specchio a osservare, con gli occhi ancora cisposi come fosse mattina anche se è tardo pomeriggio, che calano i contratti a tempo indeterminato e che aumentano le chiusure dei contratti stessi. Oddio, uno fa osservando le borse sotto gli occhi e il viso tirato, non è che le cose vanno davvero male, che avremmo fatto bene a non toccare nulla, che il Jobs Act ha svenduto diritti inalienabili a un “padrone” ingordo e infingardo?



Non è che, in altre parole, avremmo dovuto lasciare tutto intoccato, non cedere al Governo e agli imprenditori? In fondo finiti gli incentivi finito anche il boom. Quindi, e qui scatta il ragionamento condizionato di quei gufetti che aspettano solo il “tanto peggio” per dire che “nulla va bene”, il Jobs Act non è stato la soluzione, ma ha creato un problema. E allora giù trasmissioni televisive riempite di gente lautamente pagata per discutere del lavoro (che non c’è) degli altri.

Veniamo al punto però. Le aziende hanno assunto in massa l’anno scorso perché il Jobs Act era (ed è) un sistema vantaggioso che consente di sostituire un contratto flessibile, come quello a tempo determinato, avendone i vantaggi e senza nemmeno uno degli svantaggi. In effetti, oltre alla flessibilità di uscita, il nuovo contratto a tempo indeterminato ha anche avuto il notevole sostegno dei bonus contributivi e degli sgravi fiscali. Insomma, è stato quello un periodo di “Bengodi” per chiunque volesse assumere. 



“Bengodi” che però non poteva, né doveva, garantire il rilancio economico e del sistema produttivo. Doveva, invece, togliere di mezzo alcuni problemi, limare vecchie e ormai inadeguate consuetudini, spostare i diritto del lavoro dalle aule di tribunale verso i luoghi di produzione. Doveva trasformare il mito del “posto fisso” in un garantito “percorso assistito”, che avrebbe dovuto consentire a chiunque un aiuto e un’assistenza a formarsi e a inserirsi nel sempre più cangiante mercato del lavoro.

La domanda da farsi, sempre con il pennello da barba in mano, è la seguente: tutto ciò si è realizzato o è rimasto sulla carta? Le Agenzie nazionali che avrebbero dovuto permettere la nascita di questi percorsi virtuosi, esistono già, si muovono, cosa fanno? Quanti soldi hanno a disposizione? Chi le guida? Oggi, per contro, dobbiamo fare i conti con il vero limite di quella stagione eccezionale: doveva essere, quella norma, il volano per accompagnare e rilanciare il Paese nel momento della uscita dal tunnel della crisi.

Purtroppo però i dati economici non ci sostengono: e se oggi si registrano andamenti fluttuanti non è a causa dello strumento prescelto, ma della strada che con quello strumento stiamo percorrendo. La colpa non è del veicolo su cui sediamo, ma del traffico che incrociamo. Anche perché, come sempre, ci si dimentica di due corollari al Jobs Act. Corollari politici, ma densi di senso. Il primo è che il nuovo contratto a tempo indeterminato è più flessibile di quello precedente. Il secondo corollario, come detto, del Jobs Act doveva essere un sistema di formazione e ricollocamento permanente delle persone: ma questo sistema, ammesso che vedrà mai la luce, per certo a oggi esiste solo nelle carte ministeriali. 

Non a caso, in contemporanea si registra anche l’aumento dei contratti di apprendistato, tipico strumento di formazione di investimento sui giovani. Sono dati che contrastano tra loro? No, perché anzi ci dicono che le novità introdotte in questi mesi vanno nella direzione giusta, cioè in quella di dare finalmente risposte positive alla disoccupazione giovanile. Il prossimo salto, però, dipenderà da altri fattori: anzitutto dalla ripresa complessiva del sistema economico, quindi dall’aumento, vero e consistente, del Pil e della produzione industriale. Poi anche dal sostegno alla alternanza scuola-lavoro: nel 2016 sono stati coinvolti 650mila giovani, ma abbiamo bisogno che questo strumento si diffonda, si precisi meglio, sia più performante e meno “burocratico”, cioè che davvero preveda percorsi di integrazione tra l’intero sistema scolastico e il mondo del lavoro e delle imprese in generale. Un indicatore conferma questa linea: la gran parte delle attivazioni, infatti, è avvenuta al Nord, cioè ove più presenti le imprese e ove più intensi sono i rapporti con i mercati esteri. Non ci si può soffermare solo sul dato numerico, ma si deve guardare all’intero panorama.

Un ultimo dato, infine, riguarda invece l’aumentare dei licenziamenti per giusta causa, cioè per ragioni non legate direttamente all’andamento economico, ma che riguardano piuttosto i rapporti in azienda. Segno questo che sta cambiando una stagione sindacale, che sono finiti gli anni del secondo dopoguerra e dello Statuto dei lavoratori: e spia palese che occorre al più presto che tutti i soggetti in campo, e per primo il sindacato, si attrezzino per gestire meccanismi nuovi all’interno dei luoghi di produzione.

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