In un bel libro Jeremy Rifkin prefigurava la fine del lavoro. In questo libro, dalle premesse apocalittiche, si sottolinea come prima della rivoluzione industriale negli Stati Uniti il 90% della popolazione si occupava di agricoltura. Attualmente solo il 3% della popolazione si occupa di produzione agricola, ma in virtù dell’automazione la domanda di prodotti agricoli è ampiamente soddisfatta. Al di la delle conclusioni positive che l’autore consegnava al pubblico, si palesano in tutta evidenza anche i profili di criticità che tale scenario implica.
Sul riconoscimento del valore del lavoro è basata tutta la nostra società “moderna”. Il lavoro è sinonimo di redistribuzione di ricchezza, di integrazione fra popoli, di dignità e riconoscimento sociale. La rivoluzione industriale di fine Ottocento aveva portato in dote al mondo la sostituzione definitiva delle classi egemoni dell’aristocrazia terriera con il “ceto di mezzo” – la borghesia – destinato a dare origine al capitalismo produttivo. Poi ci fu la straordinaria intuizione – sotto il profilo economico – di un filosofo tedesco, Karl Marx: la necessità di manodopera intensiva per il capitale produttivo poteva essere utilizzata quale elemento di ridistribuzione di ricchezza attraverso la redistribuzione del plusvalore generato dal capitale (e dal lavoro).
A parere di chi scrive, un esempio di capitalismo sociale (involontario) è testimoniato dall’impresa di Henry Ford, uno dei pionieri del grande capitalismo industriale, non certo arruolabile nelle fila del pensiero socialista. Il modello da lui sperimentato (il fordismo)- che diede il nome anche al concetto di produzione in serie secondo le teorie tayloristiche dei tempi e metodi – era estremamente semplice, ma straordinariamente efficace. Riduco i costi di produzione attraverso la standardizzazione, abbasso i prezzi delle auto, incremento i salari dei miei dipendenti, incremento le vendite delle mie auto… incremento il mio capitale. In merito alla standardizzazione, celebre fu la sua frase “ogni cliente può avere una Ford di modello T, colorata di qualsiasi colore, a patto che sia nera”.
In buona sostanza il lavoro diviene il meccanismo attraverso il quale una società oligarchica basata sul capitalismo produttivo redistribuisce la ricchezza. Così il lavoro si caratterizzerà, per tutto il XX secolo non solo come elemento di sopravvivenza degli uomini, bensì come elemento di crescita sociale ed economica delle classi di mezzo. Su questo modello si è costruita la moderna società del XX secolo. Sul lavoro si sono sviluppate le principali politiche di welfare continentale, basate sul criterio assicurativo.
La rendita pensionistica, fra tutte le prestazioni del welfare moderno, rappresenta la prima prestazione per valore e la principale per sicurezza e senso, ed è anch’essa associata a un criterio assicurativo basato sul lavoro. Insomma, ci si assicura obbligatoriamente (in Italia all’Inps) per tutelarsi dall’inidoneità al lavoro sopravvenuta per malattia o vecchiaia (honni soit qui mal y pense associando i due status). Questo modello, che ha garantito equità e redistribuzione del reddito nel precedente secolo nei Paesi occidentali, è entrato in crisi.
Senza prendere spunto dalle provocazioni nemmeno troppo apocalittiche di J. Rifkin e testimoniare la fine del lavoro, è chiaro come cambiando il lavoro cambino i fattori della produzione, si trasformi la tradizionale concezione del lavoro stabile in lavoro temporaneo e flessibile, da dipendente e autonomo a forme miste e ibride delle stesse suddivisioni classiche. I prossimi anni ci vedranno testimoni di una crescita esponenziale della complessità e delle nuove asimmetrie nelle società moderne, soprattutto per effetto della globalizzazione e della tecnologia. Anche la finanza da strumento servente della produzione si fa essa stessa prodotto, generando una moltiplicazione della quantità e qualità degli strumenti finanziari.
Lo sviluppo tecnologico, se da un lato rende fruibile e disponibile una quantità enorme di informazioni e di servizi a basso costo alla gran parte dei cittadini del pianeta, crea nuove asimmetrie e una straordinaria concentrazione di potere nelle mani dei pochi che ne detengono le infrastrutture. La globalizzazione, con l’ingresso a pieno titolo del cosiddetto Terzo mondo nel sistema economico globale, ha determinato un travaso (visto da parte opposta, un riequilibrio) di ricchezza – derivante dall’abolizione delle barriere doganali e dalle relative rendite di posizione dei Paesi occidentali -, verso le nuove economie manifatturiere all’Oriente dell’Europa. L’effetto combinato della globalizzazione, dello sviluppo della tecnologia e del mutamento della natura della finanza ha prodotto gli stessi effetti dei conflitti mondiali del secolo scorso.
La ridefinizione dei confini economici e produttivi, la drastica redistribuzione asimmetrica dei redditi, con la tendenziale scomparsa della cosiddetta classe media nei Paesi occidentali, le ondate di immigrazione dal Sud del mondo, sono buoni testimoni di tale effetto “bellico”. È di tutta evidenza come l’ottocentesco modello previdenziale di redistribuzione della ricchezza, basato sul modello assicurativo, finanziato attraverso un contributo proporzionale sul lavoro dipendente, appare in confronto con i nuovi scenari socio-economici come può apparire un telefono di bachelite a confronto con un i-Phone di ultima generazione. Entra soprattutto in crisi il meccanismo di finanziamento del sistema di welfare previdenziale basato su un contributo capitario sulla retribuzione del lavoratore.
Oggi nell’economia di internet un ragazzo poco più che maggiorenne crea nel giro di poco tempo un’impresa che fattura miliardi di dollari con un apporto di capitale umano nemmeno paragonabile ai mitici stabilimenti automobilisti di Henry Ford a l’Eau Rouge, imprese ad alta concentrazione di capitale umano. Alla trasformazione della qualità e quantità del lavoro non si potrà rispondere solo attraverso i tradizionali sistemi assistenziali – basati sull’erogazione di somme in denaro per contrastare l’impoverimento delle classi intermedie – che espongono, tra l’altro, i Paesi continentali ad abusi e al rischio di demotivazione della disponibilità al lavoro. Il lavoro, invece, anche nella società globalizzata del web 3.0, rimane uno straordinario strumento di integrazione sociale, economica e uno degli strumenti più efficaci di umanizzazione della società, anche quella globalizzata.
Faccio questi esempi non per testimoniare la fine del tradizionale sistema di welfare previdenziale pubblico, che rimarrà fondamentale in un sistema di equa ridistribuzione del reddito, semmai per segnalare il funerale – ormai prossimo – dell’arcaico meccanismo di finanziamento del modello assicurativo, basato sul contributo previdenziale capitario che incide fortemente anche sul costo del lavoro e quindi sulla competitività dei sistemi economici.
Con esso entreranno in crisi, più prima che poi, anche i tradizionali meccanismi di calcolo previdenziale basati sui sistemi contributivi che già ora sono per lo più modalità convenzionali/virtuali di misurazione della prestazione e pertanto sempre più distanti dalla realtà, destinati a essere sostituiti in brevissimo tempo da meccanismi di finanziamento basati sulla fiscalità generale quale mezzo più efficace a riequilibrare le disparità reddituali, rispetto al contributo sul lavoro che resta un costo e un ostacolo alla crescita dell’occupazione.
Pertanto, nei Paesi a welfare assicurativo come il nostro, in futuro dovranno individuarsi meccanismi di calcolo della rendita previdenziale più evoluti del semplice calcolo contributivo e più aderenti ai mutati contesti sociali ed economici, anche mediante la reintroduzione di un trattamento minimo previdenziale legato a un periodo minimo di lavoro. Reintroducendo in buona sostanza principi solidaristici nel sistema.
Assisteremo a sistemi di misurazione delle prestazioni previdenziali sempre più orientati alla quantità in termini temporali che assicurerebbe certezze ai giovani che entrano nel mercato del lavoro: il semplice lavorare gli garantirà una pensione, ancorché minima, dando quelle certezze che il sistema contributivo non offre più. Riducendo il costo della contribuzione capitaria si avrà anche un effetto benefico sul costo del lavoro, senza ridurre il valore della prestazione previdenziale, la cui base sarà finanziata da un prelievo fiscale che è uno strumento più efficace di finanziamento.
La società moderna, dovrà certamente essere attenta alla sostenibilità del sistema, ma dovrà anche riappropriarsi di un concetto solidaristico che dia certezze ai giovani lavoratori di avere una pensione pubblica dignitosa – non assistenziale -, al raggiungimento di determinati requisiti di lavoro minimi a prescindere dai contributi capitari versati anche, e soprattutto, nelle ipotesi di lavori saltuari e intermittenti.
Solo così ricostruiremo i fondamentali di coesione sociale che le moderne società “liquide” hanno perduto.