Perché sono importanti le politiche attive? Non basta provare a rispondere a questa domanda per comprendere la portata della questione, al punto che il Jobs Act viene definito incompiuto proprio a causa della mancata attuazione degli strumenti necessari a realizzare nel nostro pPaese un moderno sistema di politiche attive di accompagnamento al lavoro. Per il solo scopo di favorire una migliore comprensione del fenomeno, mosso dalla profonda convinzione che di politiche attive i lavoratori di oggi e di domani dovranno farne indigestione, cerchiamo di capire cosa sono e vedere perché sono così importanti.
Senza la pretesa di coniare un significato accademico, mi permetto di suggerire una semplice definizione di politica attiva del lavoro, molto concreta e realistica: l’insieme di iniziative finalizzate a sostenere l’occupabilità delle persone, che può comprendere un servizio, quale il bilancio delle competenze, fino all’erogazione di interventi formativi finalizzati all’aggiornamento/accrescimento professionale.
Sostenere l’occupabilità vuol dire innanzitutto diminuire il mismatching esistente tra le necessità delle imprese (dal punto di vista professionale) e le skills del lavoratore. Indubbiamente una grande responsabilità è da imputarsi al sistema di istruzione e formazione, ma in un mondo del lavoro dove l’ict, il know how e i processi produttivi hanno un tasso di obsolescenza inferiore al quinquennio, il fattore determinante rimane sicuramente avere un’educazione con dei fondamentali forti, ma soprattutto la predisposizione e la capacità di migliorarsi, adattarsi e cambiare, in un continuo apprendimento durante la vita lavorativa.
Tutto questo la singola persona non è in grado di sostenerlo. Forse una fascia ridotta della popolazione è in grado di leggere i cambiamenti del mondo del lavoro, elaborarli e declinarli nel settore di appartenenza, intraprendendo gli accorgimenti necessari per il proprio aggiornamento professionale. La maggioranza delle persone deve essere accompagnata, sia nello scoprire il valore di una politica attiva che nella sua realizzazione e implementazione.
Buona parte del problema è racchiusa nel ridurre e limitare le politiche attive ad azioni finalizzate alla ricollocazione. Non voglio essere frainteso, se le politiche attive del lavoro non portano al risultato occupazionale sono inutili, ma occorre aver chiaro qual è il punto di partenza, l’origine, per raggiungere lo scopo.
Abbiamo bisogno di realtà (operatori del mercato del lavoro, sindacati, enti di formazione, associazionismo) che educhino i lavoratori alle politiche attive, ovvero facciano comprendere l’importanza di dover affrontare un mondo del lavoro che non si sostanzia più nel posto di lavoro, quanto invece nel percorso, nei percorsi lavorativi. Se quindi la politica attiva si realizza solo nella fase di assenza del lavoro e non è accompagnata da una sua valorizzazione sia culturale che operativa, risulterà nella maggioranza dei casi inefficiente.
Proprio a fronte di una frequente instabilità contrattuale, le fasi di non lavoro saranno sempre meno accidentali nella vita occupazionale di ciascuno e sempre più un fattore di ordinaria quotidianità. La maggior parte degli operatori attualmente protagonisti nel mercato del lavoro concepisce le politiche attive solo nella declinazione della ricollocazione, dove al centro nel migliore dei casi viene messa solo la necessità delle imprese, senza l’intento di voler prendere seriamente in carico la persona.
Questa preferenza è indubbiamente collegata a un fattore sociale ed economico: il successo occupazionale di un disoccupato assistito da un operatore accreditato ai servizi al lavoro genera degli incentivi economici corrisposti dai diversi programmi istituzionali (che si tratti di Garanzia giovani o Dote unica lavoro della virtuosa Lombardia). Come accennato prima, di per sé questo non è assolutamente un male, perché lo scopo finale è preoccuparsi che ci sia un lavoro per ciascuno. Il passo precedente e determinante consiste nell’attuare politiche attive prima che il lavoratore sia disoccupato, in fase di riduzione o contrazione lavorativa.
Oggi questo potrebbe essere visto come uno spreco di risorse, in quanto è enorme il bisogno delle persone che non hanno un lavoro e devono essere aiutate, ma in realtà risponderebbe alla necessità di predisporre i lavoratori ad aderire a percorsi di riqualificazione: quante volte sentiamo dalla bocca dei disoccupati frasi come “non mi serve la formazione, mi serve un lavoro”, oppure “alla mia età tornare a studiare? Devo portare a casa i soldi”; oppure quanti in fase di esubero preferiscono monetizzare una buona uscita che ricevere servizi alla ricollocazione. Tutte affermazioni più che legittime, ma poco corrispondenti a un atteggiamento adeguato al cambiamento dei tempi e alle dinamiche del mercato del lavoro.
Come poter innescare un’inversione di tendenza? Come generare un vero accompagnamento che, pur partendo dal bisogno del lavoro, non lascia da sole le persone, affermando una dinamica che non si esaurisce nel trovare un’occupazione, ma educa a un’attenzione al percorso lavorativo e quindi a una costante proattivazione?
Come diceva Eliot, non vogliamo sognare “sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono”. Serve una rinnovata gratuità e carità anche nel lavoro, dove i mondi dell’associazionismo, volontariato, della formazione e le realtà sindacali e datoriali non siano preoccupate solo della ricollocazione (e dei corrispettivi incentivi economici), ma prendano seriamente in carico il bisogno della persona. Questo bisogno non è sentimentalmente riconducibile al solo posto di lavoro, perché al giorno d’oggi, dopo qualche mese (tempo che cessi un contratto temporaneo) saremmo punto e a capo. Abbiamo bisogno di una compagnia lungo tutta la vita lavorativa, per sostenere e ridestare continuamente il desiderio di essere protagonisti nel lavoro; uomini e donne in grado di rimettersi continuamente in gioco, senza subire i cambiamenti che la nostra epoca impone, ma in grado di affrontarli e possibilmente governarli. Servono regole chiare e semplici, realtà (profit e no profit) che non prendano in giro i disoccupati, ma li prendano in carico e un’educazione al lavoro che cambia.
Il tempo è ormai scaduto. Le migliori esperienze devono diventare al più presto un esempio, anche per il decisore politico.