Oh, finalmente anche l’Europa ha la sua economia “alla cinese”: tassi alti (vabbè, il 3% non sarà altissimo, ma vuoi mettere con il nostrano “zero virgola”?), un’economia che sfonda e una disoccupazione che cala. Tutti penseranno che si stia parlando della Germania, il gigante cannibale che da anni ci sta sottraendo, così riferiscono i sempre informatissimi economisti, le “nostre” risorse. Se non fosse per lei, dicono i circoli nei quali dominano i Premi Nobel, le industrie italiane si sarebbero già rilanciate, gli ordini pioverebbero come gli scrosci dell’autunno lombardo, i salari sarebbero a livello svizzero e la disoccupazione al livello di Dubai.
E invece no, non stiamo parlando della vecchia “Merkel-Land”, ma della straordinaria Spagna, laddove caballeros e imprenditori si sono messi d’accordo per ricostruire l’opulenta età dell’oro di Carlo V. Almeno così parrebbe a leggere le cronache di queste ore, nelle quali il presidente del Banco Central di Spagna, il molto illustre Luis Linde, ha annunciato che l’economia spagnola è quella che ha il tasso più elevato di crescita visto che negli ultimi tre anni è cresciuta di più del 3% e che questo ha creato occupazione grazie, ça va sans-dire, all’immancabile riforma del mercato del lavoro.
Siccome al fianco di Linde c’erano tre esperti del calibro di Jean-Claude Trichet, a sua volta ex governatore della Banca centrale europea (Bce), Ferruccio de Bortoli, editorialista del Corriere della Sera, e Roberto Napoletano, direttore del Sole 24Ore, il problema si è spostato subito sull’Italia e sul mercato del lavoro che, nonostante le riforme, sarebbe ancora un peso, una palla al piede delle dinamicissime industrie tricolori. Più flessibilità, è stato il grido, la voce dal sen fuggita di quella assise tanto celebre e tanto saggia.
Vabbè, direte voi, e qual è la novità? Anche nei loro raduni serali, dopo aver deposto l’uovo, i polli si interrogano sulla flessibilità del mercato italiano. Ecco, in effetti, anche a noi pare che questa volta i Nobel e gli economisti si siano un pochino entusiasmati per nulla. Ci scusino quindi, quei signori, se dal basso del nostro piccolo punto di osservazione ci permettiamo di dire che a noi tutto questo entusiasmo per il risultato spagnolo fa un po’ paura. No mica per i nostri amici, anche personali, che risiedono nella terra di Goya e Cervantes: per loro siamo solo felici che finalmente vedano un po’ di luce rispetto al buio in cui hanno navigato per tanto tempo. Il problema è che ci chiediamo cosa significhi flessibilità nel mercato italiano.
Oggi ci sono tantissimi tipi di contratto, da quello a ore a quello a tempo indeterminato; il part-time, che un tempo era solo a cruciverba (orizzontale e verticale), adesso sembra una scacchiera, da tanto che è adattabile alle esigenze di tutti e di chiunque. Il Jobs Act permette di aprire e chiudere rapporti di lavoro come se fossero caramelle (o quasi, per fortuna!).
No, il problema non è la flessibilità, a meno che per flessibilità non si intenda quel che un ingegnoso industriale brianzolo si sarebbe inventato nei mesi scorsi quando, portata la sua azienda dall’ingrata Italia alla vicina Svizzera ticinese, prese un po’ troppo alla lettera, almeno secondo le autorità elvetiche, la proverbiale elasticità rossocrociata, e così mensilmente pagava gli operai con una certa somma di cui subito dopo si faceva rendere la metà in contanti. Troppo duttile il suo sistema anche per la Svizzera: e così è stato, diciamo, stoppato, bloccato, irrigidito. Insomma, da qualche giorno non è più flessibile. Ma, penserete voi, non è così anche in Italia? Sì certo, visto che tutti noi sappiamo che questo metodo, che i codici chiamano “furto”, è in vigore in troppe zone italiche, e che quindi anche il nostro mercato è tanto flessibile quanto quello considerato fuori legge dalla confinante Confederazione; solo che a differenza delle guardie elvetiche, da noi non si riesce a intervenire.
Torniamo allora al concetto di flessibilità: lasciateci dire che se gli economisti continuano a pestare su questo tasto, ci viene a questo punto il sospetto che le loro competenze, per quanto vaste, siano al servizio di una tesi precostituita. Perché non vorremmo che la discussione su questo tema finisse come quella battuta famosa di un vecchio film nel quale un palermitano informava il suo interlocutore che “il solo problema di Palermo è il traffico”, dimenticandosene di qualche altro più importante.
Il problema italiano sono la non ripresa del sistema industriale, il mancato sviluppo della nostra produzione, il peso delle tasse che schiaccia cittadini, famiglie e imprese, il credito ancora troppo lento e limitato, l’energia dai costi elevatissimi che impediscono di tagliare il prezzo dei beni prodotti, la banda larga che da noi non è, come nel resto del mondo, un prodotto di sviluppo, ma un sistema per “tondere e pelare” le bollette familiari, la concorrenza che ha condotto gli industriali ad acquisire dallo Stato ampie fette di beni a costi limitati, per poi abbandonare le loro imprese, dense di rischi e di fatiche, per limitarsi a guadagnare sui (mai ex) monopoli stessi. Mentre il problema del mercato del lavoro italico è la mancanza di un vero accompagnamento dei lavoratori durante il loro percorso di vita, la non partenza della pur prevista Agenzia di formazione e ricollocamento, il non funzionamento dei Centri per l’impiego.
Se poi vogliamo davvero guardare alla Spagna, allora diciamo subito, se non vogliamo prenderci in giro, che la flessibilità del mercato ha solo fatto il paio con una mini ripresa del sistema produttivo: ma non va dimenticato che la Spagna ha un sistema industriale neppure paragonabile al nostro e che il loro boom degli anni Novanta e del primo Duemila era drogato da un mercato immobiliare che si è sgonfiato alla velocità della luce.
Oggi i dati dicono che la Spagna sta solo rialzando la testa dal fondo dell’inferno, e che è passata da un più 20% di disoccupazione a qualche frazione sotto la fatidica soglia. Sempre però il doppio del mercato del lavoro italico, e comunque con la nostra stessa diffusione a macchia di leopardo, perché se la Catalogna somiglia non poco alla Lombardia o al nostro Nord-Est, in Andalusia si sta come in tanti, troppi, Sud italiani.
Piuttosto a noi pare che questa notizia dovrebbe innervosire il nostro Matteo Renzi: perché, ragionate, se il Belgio sta tre anni senza governo e resiste alla crisi e si rilancia, se la Spagna da un anno non ha né Governo né Parlamento, né maggioranza né minoranze, e migliora così tanto, viene da chiedersi se il problema non sia davvero il “traffico”, ovvero sia che i popoli tutti, europeisti convinti e non, per stare meglio dovrebbero augurarsi una bella e sana crisi strutturale politica e governativa.
La domanda comincia a correre sul filo di internet: non sarà per questo allora, ci viene il sospetto, che in Italia la banda larga è ancora in un lontano futuro?