Nei sistemi di welfare che ogni Paese ha costruito nel corso dei decenni del ‘900 si sono delineati due metodi. Da un lato sistemi tendenti a garantire a tutti dei servizi (salute, pensioni, lavoro) indipendentemente dal fatto che i singoli beneficiari contribuissero in modo differenziato. Dall’altro sistemi con erogazioni di servizi che riflettevano invece la diversa contribuzione data dai partecipanti. Ovviamente i livelli minimi di prestazione erano comunque assicurati dalla contribuzione collettiva, ossia dalla fiscalità generale. A grandi linee sono i sistemi europei continentali, nel primo caso, e quelli dei paesi anglosassoni nel secondo. I due modelli hanno fatto sì che in un caso prevalsero servizi passivi (erogazione di redditi, servizi generalisti, ecc.), mentre nell’altro si individuassero forme di partecipazione oltre a livelli richiesti a tutti i cittadini.
Nella particolarità dei servizi attivi per il lavoro la differenza fra i due modelli è ancora più marcata. Storicamente nei paesi “continentali” si è puntato ad assicurare un reddito minimo per chi perdeva il lavoro per periodi che permettessero di trovare una nuova occupazione. Nell’altro modello, alla corresponsione di un reddito di disoccupazione doveva corrispondere da parte del disoccupato una disponibilità (contrattualmente sancita) a partecipare ad attività finalizzate a cercare una nuova occupazione o in ogni caso partecipare ad attività di pubblico interesse.
Nell’ambito di questo modello si sono sviluppati metodi di valutazione dell’efficacia e dell’efficienza dei percorsi individuati. Qualora la persona non partecipava alle attività previste subiva una penalizzazione nel contributo monetario fino alla decadenza dal diritto ai servizi. In modo altrettanto preciso anche gli erogatori dei servizi sono oggetto di valutazione. Il direttore del centro per l’impiego che dimostra di non riuscire a garantire standard minimi di reinserimento lavorativo può essere spostato di incarico o perdere l’incarico stesso, lo stesso centro per l’impiego può essere chiuso o spostato se in zona a forte deindustrializzazione e con poche possibilità di sviluppare i servizi in un dato territorio.
Da qui una separazione fra modelli di servizi al lavoro che vedevano prevalere le politiche passive e quelli dove politiche attive e sostegno alle persone per una loro pro attività verso i servizi offerti erano prevalenti. La separazione fra paesi non rispecchia più, per i servizi al lavoro, la divisione fra tradizione anglosassone e continentale. Anche i paesi del nord Europa sviluppano un sistema di politiche attive del lavoro molto articolato e con risultati di efficienza molto alti.
Con lo sviluppo dell’integrazione europea è questo modello che si afferma nell’agenda lavoro che accomuna i diversi paesi e che oggi guida le riforme del mercato del lavoro e dei suoi servizi anche in paesi come l’Italia, dove la tradizione vedeva solo un ricco strumentario di politiche passive. Oggi i sistemi di welfare finalizzati all’inclusione sociale attraverso il lavoro sono sfidati da nuove tematiche. La forte immigrazione extracomunitaria pone nuove domande di servizio con problematiche di consenso sociale.
Per un Paese come il nostro dove solo con il Jobs Act si è scelto in modo deciso di costruire un sistema di servizi al lavoro e tale costruzione è oggi solo al punto di avvio, tali problematiche appaiono ancora più difficili. Finora il tipo di accoglienza offerta ai migranti, che per ragioni non solo economiche arrivano in Italia e hanno diritto di permanenza, sono solo servizi di ospitalità. Anche quando i servizi assicurati da cooperative sociali o soggetti del terzo settore non si sono prestati a scandali come nel caso romano, tali servizi hanno assicurato il minimo di ospitalità, ma senza progetti finalizzati a un’inclusione sociale. Pesano certo i ritardi con cui la nostra burocrazia arriva a certificare i diritti di permanenza. Fra l’arrivo e la certezza di poter rimanere in Italia (o comunque in Europa) passano facilmente dei semestri. Durante questo periodo vengono assicurati vitto e alloggio e una piccola disponibilità economica.
La presenza diffusa sul territorio di sedi per l’accoglienza rende sempre più evidente la necessità di passare da questa forma di accoglienza passiva a forme pro attive con progetti di inclusione sociale attraverso il lavoro. Nel corso degli ultimi mesi, a partire dalla sensibilità di piccole comunità locali, si sono moltiplicati esempi di progetti di coinvolgimento di richiedenti asilo in progetti di utilità sociale. Dal coinvolgimento in piccoli interventi di lavori di pubblica utilità (pulizia aiuole, cancellazione scritte sui muri, pulizia strade, ecc.) all’offerta di corsi di italiano.
A Milano, nel corso di un’iniziativa ambientalista finalizzata a ripulire aree pubbliche dall’abbandono di rifiuti, un buon numero di migranti ha partecipato volontariamente all’evento assieme a molti volontari milanesi. Ciò che apparteneva fino a quel momento a un dibattito sotterraneo fra operatori del settore accoglienza è così diventato di pubblica evidenza. Sia gli operatori più aperti alla necessità di passare da un’accoglienza passiva a progetti di inclusione, sia l’amministrazione comunale, hanno deciso di affrontare con volontà propositiva questa sfida.
L’accoglienza è una base da mantenere, ma senza un progetto che vede la partecipazione delle persone a un percorso finalizzato a includere attraverso il raggiungimento dell’autonomia economica mediante il lavoro non otterremo quell’integrazione fra diversi che è la migliore risposta anche a chi vede con sospetto ed egoismo la stessa accoglienza oggi in atto.
Sostenere questo passaggio a modelli di pro attivazione delle persone richiede impegni a molti livelli. Non si può aspettare mesi e mesi un parere sulla possibilità di impegnarsi in attività utili. Ma anche fra gli operatori vi è bisogno di passare dall’essere erogatori passivi di servizi a essere integratori di reti di accoglienza e inclusione. È una svolta possibile e che velocizza anche il formarsi di reti di servizi che saranno un acceleratore anche alla crescita di servizi utili per tutti.