Altro che gufate, queste sono batoste da tramortire un toro: i ben 2.511 tagli occupazionali netti tra Napoli (845 persone) e Roma (1.666) annunciati dal gruppo Almaviva, colosso italiano dei call center, sono un evento di enorme gravità oggettiva e, politicamente, un colpo basso al governo Renzi e al suo “storytelling” positivista. Anche perché non più tardi che nello scorso maggio la crisi in cui il gruppo versa era stata oggetto di un accordo al ministero del Lavoro che sembrava averne scongiurato le conseguenze. Non era vero.
“Le perdite nei due siti”, ha spiegato l’azienda, “nel periodo successivo all’accordo del 31 maggio (giugno-settembre 2016), nonostante l’utilizzo di ammortizzatori sociali, sono state pari a 1,2 milioni di euro su ricavi mensili pari a 2,3 milioni di euro”. “Il piano coinvolge il 5% del personale attualmente in forza al gruppo a livello globale”. Come se niente fosse. Ora, però, al netto della vertenza sindacale che si preannuncia durissima e dell’effetto negoziale che probabilmente il “patron” di Almaviva Alberto Tripi ha cercato sparando così alto e così pesantemente sul fronte occupazionale, e ancora al netto della maggiore o minore capacità e voglia di Almaviva di perseguire soluzioni più morbide, un allarme più generale viene sollevato da questa vicenda: che cioè siamo alla fine dell’epopea di quella “generazione mille euro”, la generazione dei giovani assunti nei call center come massima aspirazione lavorativa, che nel 2009 fu celebrata dal romanzo di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa e dal derivato film di Massimo Venier.
Si descriveva un nuovo “proletariato digitale”, con pochi soldi e poche speranze, che però ancora un posto fisso, sia pur gramo, lo trovava. Oggi tutto sembra diverso, sembra star cambiando. Oggi l’intelligenza digitale, il web semantico e i nuovi, collegati sintetizzatori fono-acustici sembrano aver fatto fare irruzione ai robot in un campo fino a tre o quatto anni fa protetto per il lavoro fisico umano, quello appunto dei call center. Non è più così, oggi, in Italia, numerosi call center dal medio traffico sono già per una buona metà automatizzati e gestiti da apparati elettronici in grado di capire le domande elementari dei clienti e rispondere a esse, salvo rimandare i casi complessi a un operatore in carne e osserva che “risponderà appena possibile”, magari anche dopo mezz’ora, ma risponderà.
È un primo, e relativamente piccolo, banco di prova di quel che accadrà ben presto – come profetizzato dal World Economic Forum 2015 di Davos, e non dal Partito comunista cubano! – in tutti quei settori industriali e dei servizi che si presteranno appunto a essere in tutto o in parte surrogati dalla nuova “generazione zero euro”, quella di robot umanoidi con la buona abitudine di non costare nulla all’impresa, se non la poca corrente elettrica che basta loro per funzionare.
È abbastanza stupefacente che su questo grave e preoccupante orizzonte sembri non esserci alcun pensiero progettuale, né politico, né economico, né solidaristico, da parte della classe dirigente occidentale in genere e italiana in specie. Né da parte dei sindacati, che ripetono stantii slogan di contrapposizione frontale, come se fosse colpa di Tripi se la tecnologia sta erodendo alle fondamenta il lavoro umano.
Sia chiaro: nessuno può pensare di frenare lo sviluppo tecnologico per salvare qualche posto di lavoro, e comunque non è mai accaduto nella storia dell’economia occidentale. Frenare la tecnologia no, ripensare il welfare in chiave tecnologica sì. E però anche questa tendenza sembra mancare del tutto oggi in Italia. Nel campo dei call center, come anche in quello – meno simpatico ma in realtà tutt’altro che integralmente inquinato – dei bancari, che notoriamente celano nei loro istituti esuberi (alias, gente che non ha nulla da fare da mattina a sera eppure costa!) pari a una metà degli effetti, circa 150 mila solo in Italia.
Ecco, anche le banche come gli altri settori esposti all’innovazione tecnologica, perderanno risorse umane a bocca di barile. E lo Stato che fa? “S’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”, come cantava Fabrizio De Andrè. Non a caso il confindustriale Tripi, pur solitamente molto moderato, ha fatto sciorinare dalla sua azienda una severa reprimenda all’indirizzo dei politici, che nulla fanno per difendere se non altro a breve termine i posti di lavoro minacciati dall’innovazione nei call center italiani, dalla concorrenza sleale, in puro social dumping, di molti Paesi del Mediterraneo dove la manodopera è pagata pochissimo. Troppo poco, per essere posta in condizioni dignitose di lavoro e di vita.