Piano piano, tomo tomo, lentamente come nelle migliori tradizioni riformistiche, ma vuoi vedere che anche in Italia si sta finalmente cominciando a capire che il mondo del lavoro è un complesso, variopinto, quadro nel quale ogni dettaglio è un microcosmo a sua volta specchio di un macrocosmo? Tradotto dal filosofese, nella lingua di noi umani, sarebbe a dire che il mondo del lavoro sta riflettendo, magari con qualche mese di ritardo, ma pur sempre con buono e sano realismo, sulla questione degli orari di lavoro, della loro adattabilità alla situazione concreta, ai bisogni del territorio.



Siamo stati abituati, da decenni, all’orario standard, alle otto ore distribuite tra mattino (dalle 8 alle 12) e pomeriggio; ovvero a variazioni di 6×6 (6 ore al giorno per 6 giorni), o ancora a orari su turni.

Adesso, soprattutto dal mondo artigiano a quello del commercio, si guarda al futuro con occhi diversi, e il tema è facilmente allargabile all’intero mondo produttivo. Proviamo a pensarci: quando al mattino siamo in fila in auto alle 7:45, quante volte non imprechiamo contro le mamme (o anche i papà) che accompagnano i figli a scuola? E quante volte chiediamo alle scuole dove i nostri figli studiano di predisporre orari più consoni e allineati con quelli dei mezzi pubblici di trasporto?



Negli ultimi anni sindacati, associazioni, ma anche gli stessi imprenditori, infatti, si sono più e più volte sgolati per chiedere che i tempi della città siano pensati e distribuiti diversamente, con minori vincoli, meno schiacciati sul tradizionale orario “8-12, 14-18”, e più pensati in favore delle famiglie, delle mamme, dei bambini, insomma della qualità della vita. Ma non si tratta solo di stare meglio. Ripensare l’orario di lavoro, renderne flessibile la fruizione, adattarlo alla realtà concreta e quotidiana (stare sotto il sole di Ragusa in luglio alle ore 14 non è come lavorare a Bolzano nel medesimo giorno e nella stessa ora, per esempio), significa anche riflettere su produttività e rendimento. Significa piegare l’orario di lavoro certamente alle esigenze della produzione, ma anche a contemperarlo con i bisogni della famiglia.



Togliere i paletti è, però, un po’ come scommettere sulla tenuta degli argini di un fiume durante una piena: si tratta cioè pur sempre di una sfida, e come tutte le sfide anche questa potrebbe andar male. Ma se non si togliessero i paletti, se non si intervenisse, sappiamo già di non poter migliorare, sentiamo di non riuscire a reggere la sfida della concorrenza, dell’innovazione: non rimane quindi che accettare tale sfida, e puntare sul fatto che se il mondo produttivo, inteso come il mondo industriale senza distinzioni che nascano dalle dimensioni dell’impresa, vuole fare i conti con la realtà dovrà imparare a confrontarsi con le richieste che nascono dal mercato, considerando per di più che tale mercato non è rappresentativo solo di produttori e consumatori, ma che a esso affluiscono anche i desideri, le aspirazioni, i bisogni delle famiglie e dei singoli. Anche loro fanno il mercato, e che artigiani, imprese, negozi, servizi si ripensino in una dimensione diversa da quella attuale, contrattuale nazionale, e invece assai più legata alla dimensione territoriale. Diremmo che potrebbe nascere un orario “glocal”.

Ma c’è un secondo punto che colpisce di queste riflessioni che stanno attraversando il recinto nel quale i contrattualisti sindacali e imprenditoriali si confrontano in una sfida da OK Corral. In effetti, sdoganare l’orario, renderlo flessibile e nella disponibilità della contrattazione regionale rappresenterebbe un indubbio passo avanti sulla strada che conduce al sorpasso della contrattazione di secondo livello su quella nazionale.

In altri termini, nella diatriba che oppone oggi chi, come Cgil ma anche settori degli altri sindacati, si erge contro lo smantellamento della contrattazione nazionale, a coloro che invece vedrebbero di buon occhio la fine dei grandi Contratti nazionali omnicomprensivi, sarebbero proprio questi ultimi ad avere la meglio. Cadrebbe una vera e propria diga, e si aprirebbero sterminate e inesplorate praterie contrattuali. Troppo pericoloso, dunque, compiere un simile passo? Stando ai rumors che giungono dalle stanze in cui si discute di questi temi, sembra che sindacati e controparti non siano per nulla contrari ad affacciarsi su questo sconosciuto continente. Come dire che potremmo trovarci di fronte nei prossimi giorni a una vera e propria avvisaglia di una rivoluzione contrattuale, alla definitiva evoluzione da una contrattazione nazionale monolitica a una contrattazione localizzata, aziendalizzata.

Vuoi vedere che si arriverà prima o poi a una contrattazione davvero rovesciata, nella quale i livelli superiori fanno opera sussidiaria, lasciando a quelli inferiori di trovare propri equilibri e di inventare soluzioni innovative e adeguate alle proprie esigenze, senza attendere che le grandi regole nazionali assorbano, tra mediazioni e contestazioni di ogni genere, le esigenze aziendali?

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