Quando mi capita, racconto sempre ai miei ragazzi (2.100 liceali e 600 di un istituto tecnico agrario) che durante gli anni delle superiori ho fatto esperienza, al pomeriggio e durante le estati, di lavoretti per guadagnare qualcosa, e arrotondare la magra paghetta settimanale. Altri tempi, si dirà. Altre stagioni. Ma completo il ricordo personale dicendo che, più che i soldi che riuscivo a guadagnare, importante era l’idea del lavoro che imparavo, cioè era l’idea di una vita che dipende dalle mie scelte, competenze, sensibilità, disponibilità. Nel senso del vecchio adagio sul fatto che “ognuno è artefice del proprio destino”. Non in termini assoluti, cioè individualistici, ma come motivazione e grinta personale.
Perché il lavoro non è uno status, ma un percorso di vita. Un percorso che riguarda tutto ciò che fa esperienza positiva, di pensiero positivo, ma che si costruisce non sempre secondo i modelli e gli schemi che ci siamo immaginati. Per cui anche cambiare spesso contesto e competenze arricchisce. Cosa che di fatto avviene oggi, per tanti nostri giovani alle prime armi. Queste esperienze frammentarie potranno, un domani, tradursi in stabilità anche contrattuale? Dipenderà da noi, più che dagli accordi sindacali. Dovremmo tutti rileggere bene il primo articolo della nostra Costituzione e, nel contempo, diffidare dalle letture superficiali dei dati relativi alla disoccupazione giovanile.
Proprio in relazione a quanto appena detto, sono rimasto colpito dalla notizia, che non ha avuto alcun peso sui nostri giornali e tv, a parte qualche titolo a effetto, di uno scandalizzato rifiuto da parte di “madri sdegnate ” su una proposta di tirocinio. Questo mi ha costretto a riandare alla mia adolescenza, alla spinta dei miei genitori, “figli della terra”, sul valore-lavoro, senza badare ai titoli, ai lustrini, ai primi stipendi.
Il fatto, di alcuni giorni fa, forse tutti se lo ricordano: McDonald’s ha proposto ben diecimila rapporti di tirocinio nei punti vendita italiani. Apriti cielo! Anche un tirocinio, in altri termini, è una porta d’ingresso al mondo del lavoro? Nel senso che, anche in questo caso, si impara lavorando? Certo che sì, dovremmo tutti rispondere. Perché anche in questo caso si “impara facendo”. Perché, cioè, non esistono solo le competenze formali, quelle che noi certifichiamo ai vari livelli, ma ci sono anche quelle informali e non formali. Si impara facendo. Per questo motivo, suggerisco sempre ai ragazzi, per i colloqui di lavoro, di non premettere la domanda “quanto guadagno”, ma “sono qui per imparare, con passione e dedizione”.
Ricordo ancora, alcuni anni fa, le discussioni con alcuni genitori, per proposte di contratti, da parte di alcune aziende vicentine, anche biennali, per un lavoro nella lontana Cina. E le perplessità delle mamme verso i loro figli, soli soletti in terra lontana. Le stesse perplessità che mi trovo a combattere a scuola, per le 200 ore ai licei e le 400 ore ai tecnici e professionali sull’alternanza scuola-lavoro al triennio delle superiori. Da parte di alcuni docenti (“il programma, il programma”) e di genitori convinti che contino più le classifiche prestazionali, come Eduscopio, che l’idea di formazione integrale, non facilmente misurabile, ma vero investimento motivazionale per i nostri giovani.
Quindi, tutte le esperienze sono formative. Ovviamente nel limite del lecito. Perché aiutano, orientano, fanno intendere la scorza dura della realtà. La quale chiede duttilità, flessibilità, disponibilità a mettersi in gioco, a imparare da tutti, con umiltà, e dalle diverse situazioni. Così i nostri ragazzi, come noi da giovani, possono imparare a costruirsi un pensiero positivo. Senza i vecchi miraggi assistenzialistici, oggi tornati di moda (per motivi elettoralistici, da alcuni partiti), sul mito del posto fisso, blindato, figlio di varie sanatorie.
Basta dare un’occhiata alla recente ricerca “Inventarsi il lavoro”, curata da Confcooperative e Censis, per dire che ci sono situazioni e dati di fatto che, un po’ alla volta, stanno cambiando il nostro tessuto sociale, in termini di occupabilità. Luci nel mare di diverse ombre.