Sono giorni convulsi per chi si occupa di contratti e contrattazione. Da un lato c’è la madre di tutti i contratti, o almeno quello che una volta si considerava tale ma che a questo punto è una tra le tante trattative, e cioè la discussione intorno al Ccnl dei metalmeccanici, dall’altro lato ci sono gli accordi fatti nel settore artigiano e del commercio, che recano con sé le promesse (o le promesse?) di future clamorose novità, tant’è che si parla perfino di una possibile riduzione del numero dei contratti nazionali.
Poi c’è sullo sfondo, solo soletto, deserto direbbe il padre Dante, con un volto mesto, emaciato, quasi fosse lui il brutto anatroccolo tra tanti bei cigni, il contratto quadro dei dipendenti pubblici, cioè di quella milionata e oltre di lavoratori che vengono da un settennio di vacche magrissime, fatto di rinvii contrattuali, di tagli agli organici, e soprattutto di novità per nulla gradite, come l’essere additati al pubblico ludibrio quali origini e cause di tanti, troppi, mali italici.
Certo, tra vigili in mutande che timbrano il cartellino, brave impiegate comunali che alternano l’estensione di un certificato con la spesa mattutina al vicino supermercato, solerti funzionari che si dedicano al secondo e terzo lavoro assai più che al primo, appare davvero difficile convincere la pubblica opinione che quelli di cui si occupa la cronaca sono solo casi isolati, poche mele marce, i residui di un’epoca, e un’epica, ormai passate. Siccome, infatti, fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, varranno sempre più le immagini di Sanremo (inteso come scandalo, non come Festival), che non quelle di tante scuole, piccole e grandi, o magari di tanti dipendenti pubblici seri e solerti che fanno in pieno il loro dovere e anche oltre.
Ma cos’ha a che fare tutto ciò con il contratto quadro del Pubblico impiego del quale Governo e parti sociali stanno discutendo? Semplice: siccome sul tavolo ci sono pochi soldi, decidere come impiegarli non è una variabile indipendente. E se le notizie che arrivano dal tavolo sono vere, allora la distribuzione di quegli 85 euro a lavoratore rappresenta la porta del futuro, sono le forche caudine da cui si deve passare per costruire un nuovo patto di fiducia tra i lavoratori.
La trattativa, dunque, è di fronte a un passaggio decisivo: il Governo ha messo a disposizione quella somma media per ogni lavoratore nel prossimo triennio, ma ha anche avanzato una proposta di distribuzione inusuale. Secondo quanto sostenuto da alcuni protagonisti della trattativa, infatti, la somma non sarebbe ripartita, al solito, a salire secondo livelli e competenze, ma in un primo momento una quota maggiore andrebbe a favore dei livelli retributivi più bassi e una quota minore a favore delle professionalità più alte, e ciò onde consentire un maggior recupero del potere d’acquisto a chi più in questi anni ne ha perso.
Insomma Collaboratori scolastici, Oss, livelli e qualifiche meno professionalizzate si vedrebbero riconosciuta una quota di salario maggiore rispetto a Docenti, Infermieri, Capi ufficio: il che, a prima vista, potrebbe apparire davvero strano; anzi, sarebbe una vera e propria rivoluzione, che, sempre a prima vista potrebbe non essere gradita da una larga parte del mondo degli statali e soprattutto non si sa quanto in linea con la richiesta, che sale sempre più dagli italiani, di una riforma profonda della Pubblica amministrazione.
In molti, infatti, potrebbero leggere in questa scelta un ritorno alla distribuzione del denaro che prescinda da professionalità, impegno, collaborazione, partecipazione e invece un tentativo di appiattire i livelli salariali, di ridurre il gap tra le diverse figure professionali. Il che, ovviamente, andrebbe a danno della qualità del servizio pubblico. Ma, come sempre, ci sono alcuni “se” di cui si deve tener conto.
Intanto mancano ancora troppi tasselli per poter discutere con calma e cognizione di causa di questa novità che a prima vista alcuni hanno giudicato una sorpresa di natura elettorale (e forse non a caso gli 85 euro di cui si discute oggi echeggiano gli ormai mitici 80 euro renziani), e però non va dimenticato che oltre al criterio di distribuzione degli 85 euro il tavolo porterebbe con sé pure il superamento della Riforma Brunetta: si dimenticherebbe così il contratto fatto per legge e si tornerebbe a una contrattazione di tipo privatistico anche nel settore pubblico. Sarebbe questo un passo avanti importante al quale, però, ripetiamolo, andranno affiancate altre decisioni, se si vorrà recuperare la distanza che ancora separa il sentire comune dei cittadini dall’immagine che essi hanno dei propri pubblici dipendenti.
Si tratterà, infatti, di lavorare perché una parte consistente degli aumenti vada sulla contrattazione di secondo livello, una vera cenerentola in un settore che pure impiega tanti italiani e così decisivo per il futuro dell’economia del nostro Paese. Se si riusciranno a spostare quote di salario, e a collegarle sempre più con il bisogno locale e sempre meno con grandi progetti, dal centro alla periferia, allora forse si riusciranno anche a differenziare i contratti, e quindi i riconoscimenti salariali, di settori che sono così profondamente disuguali come la Scuola e la Sanità, i Ministeri o gli Enti locali, le Agenzie delle entrate e la Giustizia. Senza dimenticare che corollario del contratto sono gli investimenti che prima o poi dovranno sostenere una vera riforma della Pubblica amministrazione che la metta al passo con i tempi.
Sono queste le premesse di ogni passo che voglia arrivare a una contrattazione pubblica che premi l’impegno, la professionalità, l’innovazione, la formazione del pubblico dipendente. Ecco, se tutta la discussione si ferma agli 85 euro, l’impressione è che si rischi di perdere un’altra occasione, l’ennesima per ridare una dignità a tanti dipendenti che, siamo certi perché ogni giorno essi sono sotto gli occhi di tutti, non si recano a timbrare il cartellino in mutande!