Ogni mese, l’Istat, in collaborazione con il ministero del Lavoro e l’Inps, fornisce alla pubblica opinione i dati riguardanti l’occupazione; quella riferita a maschi e femmine e anche alle varie classi di età. Bisogna dire con franchezza che è diventato sempre più faticoso leggere tra le righe le valutazioni dell’istituto di statistica, che da mesi cerca di spiegare agli italiani che la salute occupazionale progredisce incessantemente, seppur per misure decimali e talvolta per centesimi.



Con gli ultimi dati di questi giorni si è arrivati persino a sostenere che il tasso di attività sarebbe cresciuto perché una buona parte degli inattivi censiti avrebbero manifestato la volontà di immettersi nel mercato del lavoro. I dati poi riferiti alla diagnosticata crescita del numero degli occupati, oltre alla permanenza consistente degli anziani rimasti al lavoro a ragione della legge Fornero, non ha riguardato altro che il travaso avvenuto dal lavoro dipendente verso il cosiddetto lavoro indipendente: co.co.pro., partite iva e voucher. Cioè il contrario di ciò che era avvenuto quando il governo garantì alle aziende la decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato.



Diventava all’epoca conveniente passare dai rapporti di lavoro parasubordinati a quelli dipendenti a ragione di “contratti a tutele crescenti” peraltro resi più appetibili dal depotenziamento dell’articolo 18. Poi ben presto le decontribuzioni sono state dimezzate e il ventilato ritorno alla normalità dei versamenti integrali dei contributi sociali ha fatto il resto. Più che uno sviluppo di posti di lavoro, si è avuto una forte movimentazione all’interno del menù di contratti offerti dalla normativa del mercato del lavoro italiano: si giustifica così la crescita del lavoro indipendente con il massiccio ritorno a partite iva, co.co.pro. e voucher.



Squagliata la neve si vedono tutti i buchi della possente offensiva mediatica di mesi fa a sostegno delle qualità miracolose del Jobs Act, che avrebbe procurato il tanto atteso boom occupazionale. Non che di per sé il Jobs Act fosse concepito male, l’errore è stato quello che potesse da solo garantire la crescita dei posti di lavoro senza occuparsi della buona economia. Tutti i nodi stanno venendo al pettine. Dopo l’interesse iniziale per la forte attesa sul cambio di verso nel lavoro, si è passati allo scetticismo amaro dell’opinione pubblica rispetto ai dati poco incoraggianti di questi ultimi mesi.

Chissà se tutti siamo giunti alla maturità che la situazione italiana meriterebbe. Consapevolezza della classe dirigente, degli operatori dell’informazione, dell’opinione pubblica. Possibile che negli ultimi 15 anni ogni governo ha voluto la propria riforma del mercato del lavoro riuscendo così a scavalcare le grandi responsabilità che doveva invece portare ad attivare riforme economiche impopolari pur di sostenere la competitività del nostro sistema produttivo? L’occupazione si ottiene dalla buona economia. La buona economia si ottiene dai fattori di sistema in ordine che è la condizione unica per avere come risultato aziende capaci di stare nel mercato e quindi in grado di contribuire alla buona occupazione.

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