Raggiunta l’intesa tra Governo e sindacati sulla contrattazione collettiva, è bene però precisare in lettere maiuscole e sottolineate che l’accordo del 30 novembre non è in alcun modo un “rinnovo” dei contratti. Si tratta solo di una, pur importante, intesa con la quale il Governo assume una serie di impegni nei confronti delle organizzazioni sindacali. Tra questi impegni in particolare ne rilevano due. Il primo è ad avviare la contrattazione, attraverso le successive direttive da destinare all’Aran (Agenzia nazionale competente a stipulare i contratti collettivi del settore pubblico). Il secondo è modificare in più parti il d.lgs 165/2001, testo unico del pubblico impiego, soprattutto per gli aspetti connessi alla riforma Brunetta del 2009, che sottrasse alla contrattazione gran parte della disciplina del rapporto di lavoro per affidarla alla competenza della legge. L’impegno assunto dal Governo con l’accordo del 30 novembre è tornare indietro su queste scelte e potenziare il contratto, anche di secondo livello, come fonte principale di disciplina del rapporto di lavoro.



Sotto il primo aspetto, l’accordo impegna il Governo ad assicurare a tutti i comparti, scuola compresa, sia l’incremento “medio” degli stipendi di 85,00 euro, sia la revisione della riforma Brunetta (per la scuola, occorrerà rivedere la legge sulla “buona scuola”). L’impegno economico, spalmato in due anni, sarà di circa 5 miliardi, la metà quasi dei quali a carico degli enti del servizio sanitario nazionale, delle regioni, dei comuni, delle province e delle città metropolitane. 



Questo creerà, però, le prime criticità per la concreta attuazione dell’accordo: non si sa come gli enti citati primi potranno reperire l’ingente somma. Il servizio sanitario dovrà probabilmente ridurre le risorse a disposizione per le prestazioni; regioni e altri enti locali, per effetto dei numerosi tagli e vincoli di bilancio, dovranno fare i salti mortali per individuare le somme da mettere a disposizione dei rinnovi; francamente, poi, non si vede come enti, sia pur marginali, come città metropolitane e province, totalmente disastrate dalla riforma Delrio, potranno reperire i denari necessari.



Non è un caso, allora, che l’accordo insista molto sul welfare aziendale, come misura per compensare “in natura” i dipendenti. Al posto, quindi, di incrementi in busta paga, gli 85,00 euro “medi” (che comunque sono un lordo) potranno essere corrisposti in altro modo: conciliazione tempi di vita e lavoro, flessibilità oraria, lavoro agile e diffuso, prestazioni assicurative.

Nell’accordo non è scritto che gli incrementi saranno maggiori, in proporzione, per le categorie di lavoratori più basse e inferiori per quelle maggiori, ma il riferimento a un valore medio, in effetti consente di attribuire gli incrementi economici secondo lo schema della piramide rovesciata. L’elemento di maggiore impatto è, comunque, il sovvertimento di molte delle logiche della riforma Brunetta. 

Si è già detto del riequilibrio tra legge e contratti nel peso delle fonti di regolazione del lavoro pubblico, a beneficio dei contratti. Segno evidente che il Governo ha cambiato profondamente atteggiamento nei confronti dei sindacati, riconosciuti formalmente come soggetti indispensabili nelle politiche del lavoro, sia private, sia pubbliche. La riconquistata fiducia nella contrattazione, però, nasconde due pericoli. 

Il primo è quello del ritorno alla cogestione tra politica e sindacati, abbandonata con fatica 30 anni fa a causa degli sconquassi che aveva creato. Si tratterà di vedere quali punti di equilibrio tra regole e deroghe contrattuali ammesse saranno previsti dal decreto legislativo di attuazione della riforma Madia, atteso entro il prossimo febbraio e tassello indispensabile per attuare l’accordo del 30 novembre. Il depotenziamento dell’atto unilaterale come rimedio all’ostruzionismo dei sindacati nelle negoziazioni dei contratti di secondo livello sicuramente non depone a favore della valorizzazione delle singole amministrazioni come datori di lavoro e va nella direzione di un ritorno al consociativismo sindacale.

Altrettanti dubbi suscitano gli impegni a coinvolgere direttamente i sindacati nella regolazione degli strumenti per fissare gli obiettivi e i criteri di produttività, ambiti, questi, propri del datore di lavoro e, dunque, da considerare elementi dell’organizzazione del lavoro, come tale, unilaterale e non negoziale. Ma, anche qui sarà da capire quali spazi effettivi si daranno ai sindacati: se relativi al controllo dell’effettiva applicazione dei criteri di valutazione della produttività, la cosa sarebbe positiva. Tuttavia, anche in questo caso non mancano segnali preoccupanti, come l’accento sulla valutazione della produttività legata al tasso di presenza, come se fosse la presenza in servizio elemento da incentivare e non la prestazione minima da pretendere, già remunerata con lo stipendio.

In ogni caso, è da salutare positivamente l’intento di considerare ai fini della valutazione della produttività gli obiettivi finalizzati a migliorare i servizi rivolti ai cittadini e non, dunque, aventi utilità solo “interne” agli uffici. C’è, però, da aggiungere che simili intenti sono stati enunciati praticamente da tutte le riforme “epocali” del lavoro pubblico degli ultimi 25 anni, senza mai avere troppa fortuna.

Il superamento della “spesa improduttiva” e la riduzione “delle forme flessibili” del lavoro, poi, altro non appaiono se non formule general generiche, in astratto sempre condivisibili, ma carenti di elementi concreti: non risulta esistente, infatti, nei bilanci pubblici il capitolo “spesa improduttiva”, mentre non è possibile immaginare che proprio il lavoro pubblico, soggetto a profonde e necessarie modifiche, possa del tutto fare a meno di elementi di flessibilità del rapporto di lavoro.

Infine, è da auspicare che l’attuazione dell’accordo, con l’accentuazione del potere negoziale dei contratti, si accompagni a una riduzione o, comunque, simmetrica rimodulazione dei poteri di controllo e sanzione della Corte dei conti e dei servizi ispettivi del Mef, che nei 15 anni precedenti hanno considerato regolarmente illeciti tutti i contratti decentrati (da qui i vari decreti “salva Roma”, per esempio). Immaginare maggior libertà di manovra contrattuale, esponendo però gli enti a valutazioni di merito “a babbo morto” dopo anni da parte di altri soggetti, significa esporre le amministrazioni a rischi costanti di danno erariale. 

Forse, vista l’assoluta inefficacia dei sistemi di controllo interno, sarebbe il caso allora di trasformare i servizi ispettivi del Mef in organi di controllo preventivo sui contratti, o chiedere alle sezioni della Corte dei conti di approvare in via preventiva le ipotesi di contratto decentrato, parallelamente a quanto fanno le Sezioni Riunite per i contratti collettivi nazionali di lavoro, così da evitare di aprire un vaso di Pandora incontrollabile.