L’esito del referendum costituzionale ha mostrato un quadro sconfortante in termini di consenso verso il Partito democratico, con quei 30 milioni di cittadini che hanno votato contro il Governo Renzi, perché di questo si è trattato: oltre il 70% dei No, infatti, era per mandare a casa l’allora Premier. La cosa più preoccupante è che tra i giovani il No e l’anti-renzismo in generale hanno raggiunto percentuali bulgare. Cosa fare quindi per riavvicinarli al partito di maggioranza?
Prima di tutto ci vuole il “cash”, perché se vogliamo aiutare i giovani servono i soldi. E diciamolo: la “teoria” del “riduciamo gli sprechi” si è rilevata dalla nascita della Repubblica, ma forse dai tempi dell’Impero Romano, uno slogan quasi mai attuato. Annunciare di tagliare sprechi significa spesso ridurre stipendi e personale della Pa, il che vuol dire, dato lo scarso “spirito thatcheriano” dei governi italiani, che questi tagli alla fine portano poche risorse e/o disastri (vedi Province).
Nel 2015 il 20% più ricco della popolazione italiana deteneva il 67,7% della ricchezza nazionale, mentre al 60% più povero è rimasto soltanto il 14% della torta. A fronte di questo dato, possibile che per il Partito democratico il termine “patrimoniale” faccia così schifo? Politicamente è assolutamente una mossa vincente: un’imposta, applicata sul valore di mercato dei patrimoni netti, volta a sostituire elevate aliquote dell’imposta sul reddito. In Irlanda, la patrimoniale introdotta nel 1975 (fino al 1979), ancora oggi un “caso-studio”, non ha prodotto effetti negativi sugli investimenti, né modifiche su consumi o differenziazione nei settori produttivi, ma soltanto un comportamento dei più abbienti nel trasferire la ricchezza in settori non tassabili o deducibili, per ottenere un imponibile minore.
Trovati i soldi, diciamo una base di 5 miliardi di euro, che fare? Primo, evitare completamente la logica di Garanzia Giovani: il rischio è di buttare via i soldi faticosamente raccolti. Le risorse andrebbero quindi spese esclusivamente per tre importanti voci: mobilità occupazionale, auto-impiego e formazione di alto profilo. In altre parole, non parliamo di voucher o Servizio civile. Prima, ripeto prima, vanno fatti investimenti perché lo sportello Eures (ovvero lo sportello che aiuta la mobilità internazionale) sia presente e strutturato in tutta Italia, dato che è l’unico servizio per l’impiego che in questo momento presenta più offerte di lavoro che candidati.
Dopodiché se i ragazzi dopo mesi non trovano un’azienda che li chiami almeno per un colloquio (per tantissimi purtroppo le cose stanno così), le questioni sono due: hanno una competenza che per il mercato del lavoro italiano non è rilevante (per i laureati in materie umanistiche, ma anche per quelle più scientifiche, se si “stecca” i primi anni poi sono dolori); esiste un mercato, ma il profilo da dipendente non va bene.
Nel primo caso, una volta “sviluppato”, il giovane deve guardare su Eures oppure investire in formazione, anche se fresco di laurea o diploma, con master o Its che possano dare una competenza ben spendibile nel mercato del lavoro. Nel secondo caso, conviene aprire una partita Iva, lasciando stare le “fantasie”(eufemismo) di incubatori e start-up, poiché l’età media per aprire queste imprese è 35-45 anni, solo dopo una consolidata esperienza. Lo Stato, per la formazione, non deve costruire nuovi centri, ma garantire il finanziamento, di 3/4 o 4/5 del costo complessivo, lasciandone una piccola parte in capo al destinatario (anche sotto forma di prestito agevolato). In questo modo, così almeno si spera, visto che gli vengono richiesti dei soldi, il giovane non sceglierà a “caso” .
Per quel che riguarda la regolamentazione del lavoro, ritengo che vada abolita quella “boiata pazzesca” del Decreto Poletti: tre anni di contratto determinato acausale è cosa che non si può vedere. Andrebbe poi formata la Polizia locale per intensificare l’attività degli ispettori del lavoro nel contrasto al lavoro nero (realizzando anche rotazione delle unità in organico tra comuni) o per verificare il corretto utilizzo dei voucher lavoro. Bisognerebbe poi mettere degli exit-free agli stage extra-curriculari (il costo della ricollocazione dei giovani che dopo lo stage restano a casa lo deve pagare l’azienda, non la collettività!).
Tra pochi mesi ci sarà il nuovo congresso del Pd. Forse, ma dico forse, se si parlasse di queste cose qualche giovane in più si potrebbe anche iscrivere (non esageriamo) o quanto meno potrebbe pensare di partecipare all’attività politica del partito.