La recente iniziativa della Cgil tesa a eliminare dal nostro ordinamento la possibilità di ricorrere al cosiddetto “lavoro accessorio” (meglio conosciuto come voucher) ha aperto l’ennesima discussione sulla flessibilità del lavoro oggi e su quali sono gli strumenti migliori per avere flessibilità “di qualità”. Per analizzare meglio il tema sono certamente utili un po’ di numeri. Da un recente rapporto dell’Inps, ad esempio, emerge che, complessivamente, nel periodo che va da gennaio a ottobre del 2016 sono stati venduti 121,5 milioni di voucher, valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto ai primi dieci mesi del 2015, pari al 32,3%. A questo si deve aggiungere che nei primi dieci mesi del 2015, contestualmente alla significativa (ma non la prima) estensione degli ambiti, oggettivi e soggettivi, di utilizzo del lavoro accessorio (inserito per la prima volta nel nostro ordinamento con la “Legge Biagi”), la crescita dell’utilizzo dei voucher, rispetto al 2014, era stata pari al 67,6%.
Dalla sperimentazione per le vendemmie del 2008, il sistema dei buoni lavoro inoltre, è utile sottolineare, si è progressivamente potenziato sotto diversi profili, tra cui quello relativo alla rete di distribuzione dei voucher, inizialmente acquistabili solo presso le sedi Inps ovvero tramite la procedura telematica, e successivamente disponibili, grazie ad apposite convenzioni, presso i tabaccai, le Banche popolari e, più recentemente, presso tutti gli uffici postali. A oggi, ad esempio, l’acquisto dei voucher presso i tabaccai è di gran lunga la modalità prevalente.
L’Inps dice, quindi, che la tipologia di attività per la quale è stato complessivamente acquistato il maggior numero di voucher è il commercio: rappresenta, infatti, il 16,8% del totale. La regione, inoltre, nella quale si è avuto il maggiore ricorso ai voucher è la Lombardia, con oltre 22 milioni di buoni lavoro venduti solo nel 2016. Seguono il Veneto, e l’Emilia-Romagna.
In questo quadro si deve sottolineare, tuttavia, che se il numero di lavoratori (circa l’8% extracomunitari) è cresciuto costantemente negli anni, il numero medio di voucher riscossi dal singolo lavoratore, invece, è rimasto sostanzialmente invariato: circa 60 voucher l’anno dopo il 2012. Se si considera, quindi, che l’importo netto che il lavoratore riscuote per ogni voucher è di 7,50 euro, si ricava, facilmente, che il compenso annuale medio netto negli anni più recenti non è mai arrivato a 500 euro.
Nel contesto così delineato è intervenuto il Governo apportando alcune, anche rilevanti, modifiche al Jobs Act, volte a garantire la piena tracciabilità, sulla falsariga di quanto già accaduto per il “lavoro a chiamata”, dei voucher. I committenti imprenditori non agricoli (e con alcuni aggiustamenti anche quelli agricoli) o professionisti che ricorreranno a prestazioni di lavoro accessorio saranno così tenuti, almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione di lavoro accessorio, a comunicare alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, mediante sms o posta elettronica, i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, il luogo, il giorno e l’ora di inizio e di fine della prestazione.
Sarà, nei prossimi mesi, interessante capire se si assisterà, come già accaduto per il lavoro intermittente, a un repertino crollo del ricorso a questo, almeno nel contesto italiano, innovativo e, relativamente, moderno strumento. Una nuova modalità di gestire i rapporti di lavoro che, comunque, a prescindere dai dati che registreremo nei prossimi mesi, sembra aver smarrito, anche a causa di una normativa complessivamente rigida come quella introdotta dal Governo Renzi, la ragione per cui, nel 2003, era stato introdotto nel nostro ordinamento.