Secondo alcune rilevazioni di YouTrend per SkyTG24 relative al referendum costituzionale, nei 100 comuni con più disoccupati il No ha vinto con il 65,8%, mentre nei 100 comuni con meno disoccupati il Sì ha vinto con il 59%; inoltre, l’81% dei 18-34enni ha votato No (fonte Quorum per SkyTG24). In sintesi: considerato che la fascia 18-34 è quella più colpita dal fenomeno della non occupazione – solo tra i 15-29enni ci sono 2,2 milioni di inattivi – emerge in modo limpido un rapporto tra il lavoro (o meglio la sua assenza) e una scelta di opporsi a una riforma che ha assunto – non solo in questo caso – connotati non di solo merito costituzionale.
L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro recita il primo articolo della nostra Carta. Oggi la crisi economica ha acuito il problema occupazionale, ma, in realtà, si tratta di qualcosa che in termini macroscopici dura da almeno 30 anni nel nostro Paese, al di là dei tassi di lavoro sommerso – i più alti d’Europa per non dire dell’Occidente intero. Negli anni ’80 la disoccupazione giovanile era al 30% e dall’inizio degli anni 2000 – quando si è iniziato a monitorare il fenomeno dei neet (i giovani inattivi) – in Italia risultavano quasi 1,5 milioni di ragazzi che né studiavano, né lavoravano.
Il nostro è un Paese che oggi manifesta in modo prepotente le sue contraddizioni che, però, non sono una novità. In virtù della crisi economica, che pone l’argomento del lavoro al centro dei nostri interessi e dei mezzi di informazione, oggi tutti conosciamo questa triste realtà. Ma pochi ne conoscono le radici che, ahimè, sono antiche e profonde. E, quindi, più difficili da sradicare.
Non v’è dubbio che per darsi una prospettiva il Paese ha bisogno non solo di riforme modernizzatrici, ma anche di un rinnovamento della società civile. Ammesso e non concesso che domani potremmo avere la migliore politica economica, la crescita non avviene per decreto: è l’impresa che crea lavoro e oggi molte imprese italiane arrancano senza un orizzonte. E questo non è ascrivibile alla crisi in sé: spesso le imprese non riescono a riqualificarsi e a riposizionarsi dopo la fine di un ciclo. E così la nostra economia perde valore, Pil e – quindi – occupazione.
Lo sforzo che ci attende è quindi dell’intera società e pone il lavoro come priorità per ognuno di noi: dal politico, all’imprenditore, al lavoratore; fino, anche, a chi è senza lavoro. Perché le proporzioni del fenomeno dell’inattività ci dicono che la nostra non è una società attiva, ma piuttosto lenta ad attivare processi di trasformazione. Le altre economie avanzate stanno meglio di noi perché sono andate dietro al cambiamento, l’Italia ancora lo deve comprendere. A questo proposito, la disoccupazione è la causa del No o è una certa reticenza a causare la disoccupazione?
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