Il ddl sul contrasto alla povertà prevede che il governo, attraverso lo strumento dei decreti legislativi, razionalizzi le prestazioni assistenziali e previdenziali e riordini le normative dei servizi sociali. Una formulazione che potrebbe includere anche uno stesso intervento sulle pensioni. L’intervento riguarda 280mila famiglie e 580mila bambini, per un totale di un milione di cittadini. Lo stanziamento per il 2016 è pari a 600 milioni di euro, ma includendo anche risparmi e fondi pregressi le risorse complessive saranno pari a 1 miliardo di euro. Ne abbiamo parlato con Stefano Giubboni, professore di Diritto del lavoro all’Università di Perugia.



Il testo del ddl sulla povertà avrà ricadute anche sulle pensioni?

Non credo francamente. La delega effettivamente è stata formulata in termini molto ampi, ma questo è un elemento che si ritrova in quasi tutti i decreti delegati. Ritengo però che si pensi al riordino delle sole misure assistenziali, perché questo mi sembrerebbe più coerente con gli obiettivi e le finalità di questo intervento. Un intervento diretto sulla disciplina pensionistica in senso stretto non soltanto non sarebbe coerente, ma non è neppure richiesto.



Quindi non si intende intervenire sulla previdenza?

Al di là dell’ampiezza della delega, pensata anche per non incorrere in eventuali censure per eccesso di delega, non si ha in realtà in mente di intervenire in materia pensionistica. È l’impressione che ne ricavo anche leggendo l’intervista al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, rilasciata su Repubblica. Non si interverrà quindi in sede di contrasto di povertà, in quanto si tratta di due partite che dovranno essere affrontate in due sedi separate.

La Commissione Ue ha rilevato che l’attuale sistema pensionistico italiano non comporta problemi di sostenibilità. Significa che non auspica una riforma delle pensioni?



Il decreto “Salva Italia” ha comportato la generalizzazione del criterio contributivo e l’aggancio automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita degli italiani. In questo modo il nostro sistema pensionistico garantisce effettivamente un equilibrio strutturale di lungo periodo. Da questo punto di vista il giudizio sulla sostenibilità del debito pensionistico implicito nella nostra legislazione è del tutto corretto e non sorprende. I giudizi della Commissione Ue negli ultimi anni sono stati sempre fondamentalmente positivi per quanto riguarda l’idoneità delle riforme messe in campo a partire dagli anni ’90 a sostenere il sistema pensionistico nel tempo.

Ciò implica che non si possa tornare indietro rispetto alle rigidità della legge Fornero?

È evidente che i giudizi della Commissione Ue non comportano nessuna conseguenza diretta sull’eventuale nuovo intervento di riforma del legislatore italiano. Si tratterebbe cioè di un intervento non sollecitato dalle istituzioni comunitarie, che dovrebbe rispondere semmai a esigenze di equità intergenerazionale. Sono interventi che trovano però la loro ragion d’essere negli assetti interni del nostro sistema pensionistico, ma non vincoli di natura comunitaria o comunque esogena. Non attribuirei quindi in modo lineare a queste valutazioni lineari espresse da molto tempo da parte delle istituzioni comunitarie la richiesta al nostro governo di non intervenire con una riforma delle pensioni.

 

A questo punto lei che cosa si aspetta?

La relazione del presidente Inps, Tito Boeri, svolta lo scorso anno al Parlamento ha comunicato una serie di esigenze di riforma che rimangono ancora tutte in discussione. Queste esigenze andrebbero però tenute separate rispetto agli interventi di razionalizzazione del sistema assistenziale, e soprattutto di introduzione di una misura strutturale di carattere tendenzialmente universalistico come il contrasto alla povertà in Italia.

 

(Pietro Vernizzi)