Non v’è dubbio alcuno che mai come in questo inizio d’anno il futuro del lavoro, e il correlato avvento delle macchine intelligenti (smart machines), sia una delle tematiche dominanti nella stampa d’opinione, nell’agenda dei decisori pubblici e tra gli addetti ai lavori: lo stesso presidente statunitense Barack Obama, nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, la echeggiava esprimendosi in questi termini: “Il disagio nel Paese deriva da cambiamenti strutturali, ogni posto di lavoro può essere minacciato dall’automazione o delocalizzato all’estero, è diventato più difficile uscire dalla povertà, trovare lavoro per i giovani, andare in pensione quando si vuole”.
Il tema ha avuto, poi, ancor più eco mediatica essendo stato il principale (“The Fourth Industrial Revolution“) dei quattro trattati il mese scorso a Davos, nel vertice organizzato dal World Economic Forum (Wef), insieme ad altri quali la situazione attuale dell’economia cinese, al referendum sulla fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione europea e dal sempreverde dibattito sulle economie emergenti. Anche papa Francesco interveniva nella discussione, col suo messaggio inviato a Davos: “L’uomo deve guidare lo sviluppo tecnologico, non farsi comandare da esso!”.
L’evento svizzero non era, dunque, meramente occasionale, in quanto la tematica è da qualche anno di estremo interesse perché induce a riflettere sulla natura del lavoro e sulle trasformazioni che le attuali innovazioni tecnologiche possono avere su di esso. In relazione, inoltre, a fenomeni assai dibattuti, quali la diffusione dei dispositivi intelligenti, delle tecniche di apprendimento automatico (machine learning), della scienza dei dati (data science), dei robots, delle professioni in via di estinzione, dell’enorme mole dei dati oramai a disposizione per gli analisti (big data), ecc. Da qui l’interesse dei mass media, dei ricercatori, dei decisori pubblici e le analisi contrastanti sugli effetti ipotizzati.
Quest’ultimo aspetto vede contrapposti coloro che sottolineano maggiormente le opportunità di sviluppo (ad esempio, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee) da quelli che evidenziano perlopiù la morte dell’innovazione e della crescita economica nonché le minacce declinabili in un aumento smisurato della disoccupazione tecnologica e delle crescenti diseguaglianze sociali (Robert J. Gordon). Ciò che è in discussione, oggigiorno, è che un crescente numero di essere umani può progressivamente sparire dai posti di lavoro, e non solo dalle fabbriche, grazie agli effetti dell’automazione di massa.
Ed è proprio questo il nervo scoperto di cui si parla in maniera più o meno avvertita, ovvero della necessità di esorcizzare una tale eventualità, a maggior ragione dopo la notizia riportata da tutti i media, che la cinese Shenzhen Everwin Precision Technology Co. ha creato la prima fabbrica robotizzata al 90%, con il conseguente licenziamento dei lavoratori, ora divenuti superflui. La presenza umana sarebbe assicurata in azienda solo dagli addetti al funzionamento del software e pochi altri addetti alla manutenzione, al rifornimento e alle generiche attività di supporto. Ma non si tratterebbe di un caso isolato se nello stesso distretto di Dongguan 505 fabbriche hanno investito 4,2 miliardi di yuan nei robots, con l’obiettivo di sostituire più di 30.000 lavoratori, secondo le previsioni della Dongguan Economy and Information Technology Bureau. La stessa Bbc ha pubblicato on-line un grafico interattivo in cui è possibile verificare fino a che rischio di automazione sia la propria professione, titolando la pagina web in modo inequivoco: “Will a robot take your job?“.
Siccome il presente può essere meglio compreso volgendosi al passato, vale qui la pena riportare una sintetica cronistoria dei rapporti tra nuove tecnologie, sistema educativo e mercato del lavoro. Nel 1930, John Maynard Keynes, in un periodo in cui sembravano prevalere visioni pessimistiche sulla situazione economica, scrisse un saggio ampiamente ottimistico “Economic Possibilities for our Grandchildren“. Egli immaginava una via di mezzo, sia dalla rivoluzione che dalla stagnazione, in cui ipotizzava che la situazione economica dei nipoti sarebbe stata migliore di quella dei loro padri. Ma il sentiero da percorrere, in questa direzione, non sarebbe stato scevro da pericoli. Una delle preoccupazioni maggiori dell’economista inglese era un’inedita malattia, la disoccupazione tecnologica, causata dalla scoperta di nuovi mezzi per economizzare sul fattore. Egli si chiedeva anche, in maniera retorica, che se i suoi lettori non fossero ancora venuti a conoscenza del problema se ne sarebbero, però, ben presto resi conto.
Nel corso dei decenni, il progresso tecnico si sarebbe incaricato di confermare le ottimistiche previsioni di Keynes: la crescita della produttività, apportata dalle nuove tecnologie, avrebbe permesso l’aumento dei redditi e la conseguente generazione di nuovi prodotti e servizi che avrebbero creato nuovi posti di lavoro, per i lavoratori espulsi dalle attività economiche tradizionali. In questo percorso un ruolo centrale veniva giocato dal sistema educativo. Per buona parte dello scorso secolo, difatti, la domanda di lavoro si era genericamente indirizzata verso i lavoratori maggiormente istruiti in quanto più adatti a utilizzare le nuove tecnologie. In letteratura si parlava, allora, di spiazzamento dei lavoratori maggiormente qualificati a danno di quelli meno istruiti (skill-biased technical change). Tanto che le stesse politiche pubbliche, promosse dai governi, vertevano su come mitigare gli effetti deleteri di coloro che non avevano ricevuto un’educazione adeguata e andavano così a ingrossare le file dei lavoratori dequalificati. In questo senso, veniva promosso lo studio della matematica, dell’ingegneria e delle scienze, così come si cercava di favorire una quota sempre maggiore di laureati, democratizzando di fatto gli accessi universitari.
Oggi, a differenza del recente passato, l’accento viene posto perlopiù sul grado di ripetitività dei compiti lavorativi (tasks) e si parla al riguardo di task-biased technical change. Con ciò si vuole sottolineare che se le mansioni da svolgere sono di carattere ripetitivo e routinario esse possono essere svolte con maggiore efficienza da una qualche forma di intelligenza artificiale. Da qui la diffusione delle macchine intelligenti e un mutamento di prospettiva: negli anni passati, era soprattutto il settore della produzione a essere oggetto di più forte automazione, mentre adesso lo è anche quello dei servizi. La novità attuale è, difatti, che compiti ripetitivi e laboriosi potrebbero essere considerati non solo quelli tradizionali di ufficio, già oggetto di forti ridimensionamenti, ma anche altri, insospettabili fino all’altro ieri.
Qui si possono fare solo alcuni esempi, estremamente indicativi, quali lo scrivere parti di codice di programmazione, oppure il leggere una lastra ai raggi X, oppure l’estrarre informazioni utili da una serie non strutturata di documenti. In tutti questi casi essi sono attualmente svolti da personale con elevata qualificazione (programmatore, medico, ricercatore) in quanto fanno riferimento a competenze/skills assai specializzate, di non facile acquisizione e con lunghi anni di esperienza lavorativa alle spalle. Gli ultimi sviluppi paiono però intaccare tali certezze grazie all’elaborazione di softwares sempre più potenti nel primo caso, di algoritmi e tecniche di machine learningutilizzabili per il riconoscimento dei patterns visivi nel secondo e di tecniche di estrazione di dati (data mining) nel terzo. In tutte queste situazioni, qui esemplificate, né la pregressa esperienza lavorativa e neppure il titolo educativo sembrerebbero mettere al riparo questi lavoratori dall’avvento dei dispositivi intelligenti.
Volendo trarre da tutto ciò delle indicazioni operative va innanzitutto premesso che la direzione dello sviluppo non è facilmente prefigurabile in quanto moltissimi fattori potrebbero influenzare la domanda futura di specifici profili professionali. La posizione che qui si esplicita, inoltre, non è quella di chi sostiene che l’acquisizione di un titolo educativo e/o formativo non sia più proficuamente spendibile nel mercato del lavoro del prossimo futuro. Più volte, difatti, si è messo l’accento sul credenzialismo educativo e su come esso si sia ancor più esasperato nella situazione attuale: i lavoratori con credenziali educative elevate sono e ancora saranno i più adattabili e/o i più creativi e avranno delle retribuzioni superiori alla media. In ultima istanza, converrà ancora mandare i propri figli all’università.
La prossima generazione potrebbe, però, trovarsi di fronte a questo paradosso, vale a dire che il conseguimento di un titolo di studio, ancorché di fascia alta, potrebbe non rivelarsi così determinante per l’accesso al mercato del lavoro. Potrebbe contare, difatti, più il tipo e il genere di educazione ricevuta che la quantità della stessa. Il messaggio da consegnare ai nipoti potrebbe essere, allora, del tipo: “Preparati per una professione che sia la meno possibile soggetta a essere automatizzata”. Come questa indicazione, di semplice buon senso, possa però essere messa concretamente in pratica costituisce il vero snodo della questione sin qui sollevata e su cui i decisori pubblici, supportati dagli analisti (i data scientist, la professione atta a ben caratterizzare il momento presente, alla quale sarà dedicato un prossimo articolo) dovranno indicare dei piani di azione convincenti. Con tempi scolastici lunghi, che vanno dai 13 anni delle superiori ai 18 dell’Università, è già ora che ci si inizi a riflettere.