La contesa tra Stefania Giannini e Roberta D’Alessandro è ormai un fatto di cronaca: il ministro dell’Istruzione ha esultato per le 30 borse di studio dell’Erc (European Research Council) su 302 vinte da italiani e, per questo, la giovane ricercatrice non ha mancato di manifestare il suo disappunto (“Non si vanti dei nostri risultati”). Come al solito l’Italia, sui problemi del Paese, si divide tra tifoserie da stadio, curva nord e curva sud. Quindi, chi sta con la Ministra (cosa ha detto di sbagliato?, si sono chiesti alcuni) e chi sta con la giovane ricercatrice.
Sorprende, a dire il vero, leggere un titolo come “Cara Roberta, se la ricerca in Italia fa schifo la colpa è anche un po’ tua”, ma è superfluo commentare il tentativo incessante di cercare attenzione da parte di alcuni giornalisti che non sanno più cosa inventarsi pur di generare l’effetto sorpresa. Sono poi gli stessi che negano che esista un problema “fuga dei cervelli”.
Certamente a volte si dà troppa enfasi ad alcuni temi, e possiamo discutere se questo sia il caso; ma negare che esista un problema giovani e lavoro in Italia – che costringe molti a cercare occupazione laddove la loro expertise è più spendibile – e concludere che i giovani siano tutti “bamboccioni” è davvero una grande menzogna.
Iniziamo col dire che l’ultimo dato in merito dell’Ue ci dice che sono oltre 100.000 i giovani laureati italiani nel Vecchio continente, i quali hanno deciso di lasciare l’Italia e “sono diventati ricchi senza smantellare un tessuto sociale in cui l’accesso al lavoro dipende dai contatti familiari, dalle affiliazioni politiche e dalle raccomandazioni” (l’Economist, che ha scritto del caso italiano, per dire raccomandazioni usa proprio il vocabolo italiano).
Secondo Istat, nel 2013 ben 19mila laureati sono andati a cercare fortuna oltre confine: mete preferite il Regno Unito (3.300 individui), la Svizzera (2.400), la Germania (2.000), la Francia (1.600) e gli Stati Uniti (1.400).
A parte il carattere molto “familistico” del nostro mercato del lavoro – l’85% dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro è determinato dal canale informale, ossia dalla rete di conoscenze -, cosa che evidentemente molti giovani non amano, c’è da dire che la domanda del nostro sistema produttivo è prevalentemente orientata su profili bassi: questo da una parte perché il 98% della nostra economia è composto da Pmi in cui (soprattutto nella piccola) per il giovane lavoratore che si è specializzato spesso non c’è una collocazione; dall’altra perché le aziende italiane, anche medio-grandi, non essendosi in molti casi innovate in tempo di economia globale, non cercano particolari specialità. Ecco spiegato l’esodo dei nostri talenti. Considerando il fatto che i giovani sono portatori di innovazione, il fenomeno andrebbe affrontato con molta attenzione e non banalizzato come avviene di solito.
Si obietterà che il fenomeno dei “cervelli migranti” esiste in tutti i paesi (come tempo addietro abbiamo raccontato su queste pagine). Il problema è che, come nel caso dei nostri ricercatori, i cervelli italiani cercano altrove perché – come dice Roberta – l’Italia non li ha voluti; negli altri paesi, prevalentemente, si tratta di ragazzi che scelgono di fare esperienze all’estero, pur avendo la possibilità di lavorare nel loro Paese.
Ma i bamboccioni non esistono? Sì, esistono anche questi. Nel paese dell’area Ocse con il numero più alto di Neet (i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono oltre 2 milioni) è impossibile negare il fenomeno bamboccioni. Resta il fatto che questo Paese ha bisogno di investire in cultura del lavoro.
Twitter @sabella_thinkin