La disponibilità dei dati sugli occupati relativi a tutto il 2015 ha dato vita a un dibattito alquanto diffuso per arrivare a dare una valutazione degli effetti delle riforme che hanno interessato il mercato del lavoro. In particolare, l’attenzione ha riguardato gli effetti delle misure previste nel Jobs Act e quanto di positivo hanno generato se è stato endogeno o se effetto delle misure fiscali di sostegno che l’hanno accompagnato. Alla discussione hanno dato contributi sia sedi scientifiche che politiche, talvolta creando una discreta cacofonia che non aiuta a mettere a fuoco la situazione reale.
L’occupazione nel corso dell’ultimo anno è cresciuta, la disoccupazione è scesa. La situazione della disoccupazione giovanile e femminile non è migliorata. Il tasso di occupazione complessivo è cresciuto. Concordano con queste affermazioni sia i dati statistici (Istat), sia quelli amministrativi (comunicazioni obbligatorie). Parliamo di movimenti che restano intorno all’1%, ma indubbiamente con segni che, dopo anni, invertono la tendenza. Sull’effetto positivo che riguarda anche la disoccupazione incide altresì un aumento di quanti si sono però scoraggiati e non cercano lavoro.
All’interno di questi macro-effetti vi è stato uno spostamento di occupati nell’ambito delle diverse categorie contrattuali. In particolare, i contratti a tempo indeterminato sono aumentati sia sullo stock complessivo degli occupati, sia come contratto di assunzione (più utilizzati insieme a quelli a tempo determinato). Un calo secco hanno registrato tutte le forme di contratto parasubordinato (cococo, cocopro e anche le partite Iva).
A sostenere questa migrazione contrattuale hanno certamente contributo i vantaggi fiscali a favore del tempo indeterminato che erano già in atto prima dell’introduzione del contratto a tutele crescenti e che hanno quindi proseguito la loro efficacia dopo l’introduzione delle nuove opportunità contrattuali.
Se il sunto dei mutamenti registrati nel corso dell’ultimo anno è corretto cerchiamo di attribuire tali risultati alle manovre che li hanno sostenuti senza incrociare effetti con cause che hanno altre ragioni. I risultati occupazionali non sono mai determinati dalla legislazione del lavoro. La domanda di lavoro è formata dalla domanda di beni e servizi, pubblici e privati, e questa ha avuto un andamento che spiega perché le variabili occupazionali si sono mosse con segno positivo ma sempre con numeri molto bassi. Se l’economia non cresce, il lavoro resta quello che è. La nostra economia ha invertito dopo anni il segno, è tornata a crescere, meglio il più “uno” dello scorso anno che il meno due di prima. Ma più “uno” lascia la domanda di lavoro quasi immobile e non libera risorse per poter attuare le politiche necessarie ad assorbire la disoccupazione giovanile e l’inoccupazione femminile.
La legislazione permette però al mercato del lavoro di funzionare meglio e quindi di adeguarsi più celermente alle sollecitazioni di crescita che ci auguriamo siano confermate nei prossimi anni. Dobbiamo quindi augurarci che il governo metta in atto una misura economica che abbia la stessa portata di innovazione del Jobs Act e non invece usare le difficoltà economiche per chiedere al Jobs Act effetti che non può assicurare.
La riforma del mercato del lavoro aveva almeno tre obiettivi dichiarati. Mettere fine al dualismo fra tutelati e non che caratterizzava il mercato del lavoro italiano. Favorire assunzioni con contratti stabili (il tempo indeterminato come contratto base). Dare vita a un sistema di servizi al lavoro e ammortizzatori che fossero finalizzati al reinserimento lavorativo.
Da questo punto di vista i risultati ottenuti dicono che la nuova legislazione sta funzionando. Anche scontando il fatto che le detrazioni fiscali hanno favorito gli effetti legislativi, ciò ha permesso di accelerare il processo voluto di spostare da contratti precari a contratti di qualità e tutele maggiori un numero significativo di lavoratori già occupati. Il saldo è positivo anche per i nuovi assunti, in quanto fruiscono di assunzioni con contratti a tutele piene, anche se prevalgono ancora i tempi determinati sui tempi indeterminati. Restano da avviare i nuovi servizi al lavoro e vi è qui un ritardo che indica come corporativismi e chiusure della burocrazia statale e parastatale rischiano di affossare una gamba portante del Jobs Act.
Sostenere la crescita del tasso di occupazione richiede quindi un impegno rinnovato sui due fronti. Una politica economica che rilanci la crescita per avere un stabile aumento degli occupati. Politiche giovanile e femminili per correggere storture strutturali del nostro mercato del lavoro.
Ma tutto ciò trova nel Jobs Act un punto fermo di partenza che può sostenere i nuovi interventi. A meno che ci sia ancora chi è rimasto orfano del muro creato nel tempo dall’articolo 18 e preferisca tornare alla contrapposizioni ideologiche invece di rimboccarsi le maniche per lavorare a concrete politiche riformiste.