Mentre ci stiamo ancora chiedendo se c’è o meno una ripresa, dopo la più grande crisi dal dopoguerra iniziata nel 2008, osservando segnali contrastanti, a macchia di leopardo, cioè spesso non omogenei rispetto al settore, alle dimensioni aziendali e ai mercati; e mentre, pensando di vedere un barlume di luce in fondo al tunnel, già si sentono allarmi di nuove crisi globali (proprio alla vigilia del G-20 di Shanghai, il Fondo monetario internazionale ha lanciato nei giorni scorsi l’ennesimo allarme sullo stato di salute dell’economia mondiale valutata come “altamente vulnerabile” e ha esortato gli Stati Uniti e le altre grandi nazioni a preparare dei “possibili piani di emergenza”); mentre in Italia stiamo ancora cercando di capire se l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato è solo dovuto al travaso da altri contratti di lavoro “drogato” dagli incentivi di Stato o da una reale ripresa dell’offerta di lavoro; mentre accade tutto questo, una cosa è certa: siamo entrati nella rivoluzione industriale 4.0, quella della cosiddetta intelligenza artificiale. Dove subisce una straordinaria accelerazione lo sviluppo di ambiti come l’automazione dei sistemi di produzione, la robotica e la digitalizzazione dei processi.

Secondo il rapporto “The Future of Jobs”, presentato al recente vertice del World Economic Forum di Davos (intitolato proprio “Mastering the Fourth Industrial Revolution”), la quarta rivoluzione industriale renderà superfluo il lavoro di un grande numero di persone, in particolare nel settore manifatturiero: nei 15 grandi paesi oggetto dell’indagine, entro il 2020 si perderanno cinque milioni di posti di lavoro, al netto dei nuovi che saranno creati.

Voci preoccupate per questo scenario, che in parte già viviamo, si sono alzate da più parti. Il presidente Barack Obama, durante il suo recente discorso sullo Stato dell’Unione, ha lanciato un allarme, sostenendo che “ogni posto di lavoro oggi rischia di essere sostituito dalla tecnologia”. Papa Francesco, nel messaggio mandato al vertice di Davos, pone l’accento sulla libertà di cui l’uomo dispone e che lo rende in grado di governare l’economia: “L’uomo deve guidare lo sviluppo tecnologico senza lasciarsi dominare da esso!”. Nella sua ultima enciclica Laudato Si, al capitolo “La necessità di difendere il lavoro”, ha anche affermato con molta nettezza che “i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzio­ni economiche comportano sempre anche costi umani. Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società” (Laudato Sì, par. 127). Da cui “emerge con chiarezza il bisogno di dar vita a nuovi modelli imprenditoriali che, nel promuovere lo sviluppo di tecnologie avanzate, siano anche in grado di utilizzarle per creare un lavoro dignitoso per tutti” (Messaggio di Papa Francesco al Wef di Davos 2016).

Il celebre professore di Business Administration ad Harvard, Clayton Christensen, che ha studiato la correlazione tra innovazione e creazione di posti di lavoro, ha ammesso: “Gli strumenti che usiamo per indirizzare i nostri investimenti sono ciechi rispetto alle migliori opportunità per creare nuovi posti di lavoro e nuovi mercati”. Da cui consegue la necessità di identificare “nuovi modi di misurare il potenziale e definire il successo dei nostri investimenti” (C. Christensen, D. Van Bever, “The Capitalist’s Dilemma”, HBR June 2014).

D’altra parte c’è un filone di pensiero di economisti e sociologi piuttosto influente che, in estrema sintesi, afferma “dov’è il problema? La quarta rivoluzione industriale porterà una tale ricchezza alle economie avanzate che se, anche molti saranno senza lavoro, potranno essere mantenuti in futuro da sussidi di disoccupazione, redditi di cittadinanza e quant’altro in modo che i disoccupati possano comunque sopravvivere”… e, aggiungiamo noi, spendere. Dopo la riduzione dell’uomo a homo oeconomicus assisteremo dunque, teorizzata e accettata da questi pensatori, alla sua riduzione a homo consumer. Produrranno (quasi) tutto alcune macchine adeguatamente programmate. Siamo oggi condannati a passare dall’alienazione del lavoro, denunciata nel ‘900, all’alienazione dal lavoro, spettro dell’inizio del XXI secolo? È un futuro ineluttabile quello che ci vogliono far credere molti guru delle proiezioni economiche e sociali? Un futuro in cui non abbiamo libertà di scelta nell’orientare l’uso dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico, in cui siamo destinati a essere insieme ingranaggi e artefici di un meccanismo di “magnifiche sorti e progressive” che inesorabilmente distrugge i nostri stessi posti di lavoro?

Eppure tutta la nostra esperienza umana e lavorativa dice che l’uomo ha bisogno di lavorare e di costruire non solo per una necessità economica, ma per il desiderio innato di realizzarsi riconoscendo in azione le proprie capacità e, in definitiva, la propria natura di utilità per sé e per il mondo. Tale esigenza risulta particolarmente evidente quando il lavoro lo si perde: lo vediamo, per esempio, nell’esperienza dell’Associazione non profit Retemanager, che compie proprio in questo periodo dieci anni di vita, che ha lo scopo di accompagnare a uno a uno, in modo gratuito e volontario, i manager disoccupati alla ricerca di nuove opportunità lavorative. Ciò che fa la differenza per il buon esito della ricerca è in primis il ridestarsi della persona che diventa disponibile a cambiare l’idea di sé e del suo lavoro.

È evidente che la reazione allo scenario sopra descritto non può essere difensiva, reclamando lo scudo di leggi protezionistiche, né tantomeno neo-luddistica, ma si gioca innanzitutto come sfida educativa (parola strana da applicare al mondo del lavoro), perché l’azienda è di fatto, volente o nolente, un ambito educativo dove si formano convinzioni e comportamenti. Il grande Ceo Jack Welch, per 20 anni a capo del gruppo General Electric, affermava che in un’azienda non sono tanto i “Values”, scritti accanto alla mission e alla vision aziendale, ma i “Beliefs”, i convincimenti frutto dell’esperienza reale in azienda, a determinare i “Behaviors”, cioè i comportamenti reali delle persone.

È una sfida educativa all’atteggiamento e alla mentalità di tutti i soggetti coinvolti, ognuno nel suo ruolo e responsabilità, a tutti i livelli (imprenditori, manager, lavoratori, rappresentanti delle parti sociali, ecc.), al nostro modo di intendere la persona e il suo lavoro, ai criteri con cui prendiamo le decisioni e definiamo gli obiettivi, al modo con cui affrontiamo le crisi e le ristrutturazioni aziendali, alla disponibilità a rimettersi costantemente in discussione, ad apprendere l’uso di nuovi strumenti (particolarmente significativo in Italia dove l’incidenza del valore aggiunto del manifatturiero è decisiva e dove il report di Davos ha sottolineato che nei prossimi cinque anni i lavoratori dovranno sostituire circa il 40% delle proprie competenze principali, soprattutto in termini delle cosiddette “non cognitive skill”, come la capacità di apprendere nuovi ruoli e padroneggiare le smart technology), ad aprirci insomma a imparare da tutti e a ripartire sempre, senza mai rassegnarci o sentirci falliti.

E questa è una sfida che non si può affrontare da soli. Come ha sottolineato il Papa alla delegazione di Confindustria in udienza sabato 27 febbraio scorso, è necessario “fare insieme” per essere costruttori del bene comune e artefici di un nuovo “umanesimo del lavoro”, facendo “in modo che il lavoro crei altro lavoro, la responsabilità crei altra responsabilità, la speranza crei altra speranza, soprattutto per le giovani generazioni”.

Ma a questo punto ci domandiamo: una tale sfida è solo un’esigenza umana giusta, ma un po’ utopica, una forma di responsabilità sociale irrealizzabile o affrontarla porta una convenienza concreta, nel medio e nel lungo termine, in termini di competitività e sostenibilità delle aziende in cui lavoriamo?

Tanti esempi di aziende che crescono in competitività e in posti di lavoro, anche in settori attaccati pesantemente dalla crisi e da una concorrenza spietata, ci indicano che questa seconda ipotesi è realistica. E che la crisi, se non si censurano le domande radicali che fa emergere, porta innovazione innanzitutto nel modo di guardare i problemi che non può più essere quello convenzionale. Serve a poco dunque rimandare la palla e il problema nel campo di qualcun altro (politica, governi, ecc.), proponendo l’ennesima e disattesa ricetta sul da farsi, ma innanzitutto è necessario conoscere e valorizzare esempi reali positivi in cui questa sfida viene accettata. Essi lanciano anche una provocazione culturale, senza arrendersi al “mantra” dominante per cui saremmo condannati inesorabilmente a uno sviluppo senza occupazione.

Per cogliere la sfida sono necessari uomini liberi capaci di rischiare anche andando controcorrente, ciascuno per le responsabilità che ha.

 

Sarà questo il tema del convegno che si svolgerà domani, martedì 1 marzo 2016, alle 18:15 presso la Società Umanitaria – Salone degli Affreschi – via San Barnaba 48, Milano

L’Uomo, una Risorsa

Siamo condannati a uno sviluppo senza occupazione? Quali sfide per imprenditori, manager e lavoratori?

Interverranno: Giorgio Squinzi, Presidente Confindustria, Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà, Gigi Petteni, Segretario Nazionale Cisl, Alberto Sportoletti, Presidente Associazione Retemanager.

Promosso da: Associazione Retemanager, Società Umanitaria, Aldai-Federmanager, Centro Culturale di Milano, Circolo Culturale Ettore Calvi, Compagnia delle Opere, Fondazione per la Sussidiarietà, Fondazione Vittorino Colombo e Pastorale Sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Milano