Proprio in questi giorni si tirano le somme sui risultati della riforma del mercato del lavoro portata avanti negli ultimi due anni dal Governo. Da un esame dei dati pubblicati da soggetti indipendenti dall’esecutivo, i numeri raggiunti non sembrano così positivi come quelli invece diffusi da fonti governative. Un’analisi eseguita da due ricercatori della Banca d’Italia (Paolo Sestito, capo del servizio Struttura Economica di palazzo Koch, ed Eliana Viviano, economista del suo staff) mette in luce che le modifiche normative apportate dal Jobs Act hanno avuto sì un effetto positivo, ma non determinante rispetto agli incrementi occupazionali registrati rispetto all’anno precedente la sua entrata in vigore. Al contrario, il vero volano della ripresa occupazionale risulta essere stato il sistema di incentivi fiscali e contributivi.
Più nello specifico, i due ricercatori di Bankitalia – utilizzando, occorre dirlo, un campione ancora ristretto – hanno riscontrato che, con riferimento al periodo gennaio 2013/novembre 2015, circa il 45% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute è attribuibile ad almeno una delle due misure in discussione. Tuttavia, il merito delle stesse è da attribuire quasi esclusivamente all’introduzione degli incentivi economici.
La combinazione del contratto a tutele crescenti e degli incentivi spiega, difatti, solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato (comprendenti tutte le altre forme contrattuali). Di tale 5%, le assunzioni con il contratto a tutele crescenti rappresentano solo un quinto delle nuove assunzioni. I ricercatori concludono affermando che l’effettivo contributo della riforma del lavoro all’incremento delle assunzioni vale appena l’1% dell’aumento registrato.
Ciò vuol dire che la combinazione di Jobs Act e incentivi economici potrebbe aver avuto un ruolo determinante nella creazione di circa 45.000 nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato nei primi sei mesi del 2015. Si tratta certamente di un numero non irrilevante, costituendo un’inversione di tendenza rispetto ai semestri precedenti, ma assai meno significativo dei dati resi pubblici dall’Inps nel medesimo periodo (circa 600.000) e di quelli resi noti dal ministero del Lavoro (circa 740.000).
Anche dai dati Istat pubblicati a inizio marzo emerge un modesto impatto della riforma del mercato del lavoro nella crescita di posti di lavoro. Secondo l’Istat, il numero di occupati su base annua è in crescita dell’1,3% (+299 mila). Tale dato riguarda le nuove occupazioni in generale, senza distinzioni delle forme contrattuali adottate. Ciò vuol dire che il contratto a tutele crescenti ha avuto un impatto limitato nella crescita occupazionale.
Più in generale, l’Istat, precisamente, con il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi (pubblicato lo scorso 24 febbraio) afferma che, in relazione alle agevolazioni contributive, si riscontra un effetto “statisticamente significativo”. Nello specifico, solo in relazione a tale intervento (e non al contratto a tutele crescenti) è possibile collegare un aumento (medio) del 24% della probabilità di aumento del personale a tempo indeterminato.
A tal proposito il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, intervistato da Radio Capital, ha usato una metafora per commentare i dati sull’occupazione e i pareri di Istat e Bankitalia secondo cui gli sgravi contributivi hanno favorito più del Jobs Act la creazione di nuovi posti di lavoro: “Se i tortellini sono buoni è difficile decidere se lo sono per la pasta, il ripieno o il brodo di gallina. Il risultato viene da una buona armonia tra incentivi, contratti più flessibili e certi e il ritmo di crescita”.
Quanto afferma Poletti non è però condivisibile. Infatti, va detto, a questo punto, che se il contratto a tutele crescenti resterà in vigore nei prossimi anni, gli incentivi alle assunzioni non seguiranno la stessa sorte. Già per l’anno in corso sono stati notevolmente ridotti. Il venire meno degli incentivi mal si concilia con le esigenze sempre maggiori delle aziende di creare nuova occupazione con un costo del lavoro sostenibile. Il costo del lavoro eccessivo rappresenta l’ostacolo all’assunzione di nuove risorse.
Le considerazioni svolte portano a concludere che la riforma portata avanti dall’attuale governo pecchi in maniera evidente dal punto di vista strutturale: è carente di misure e interventi stabili e duraturi che potrebbero realmente determinare una vera crescita del mercato del lavoro.