Sono passati quattordici anni dalla morte di Marco Biagi, assassinato da brigatisti rossi la sera del 19 marzo del 2002 a Bologna sotto casa sua. Aveva 51 anni ed era nel periodo più fecondo della sua attività di giurista esperto di lavoro. Il professor Biagi era molto conosciuto e apprezzato negli ambienti riformatori italiani ed europei, ma molto temuto e odiato dalle componenti conservatrici nel sociale e nella politica, molto forti all’epoca, che resistevano a ogni cambiamento delle regole del lavoro, che le mutate situazioni di mercato internazionale esigevano in Italia, in forte ritardo rispetto gli altri Paesi concorrenti.



Ciò che ispirava Biagi nel suo lavoro di autorevole consulente del governo era l’esigenza di restringere le aree del lavoro nero, di tutelare le forme precarie del lavoro a fronte di un’esigenza di flessibilità che in Italia aveva assunto le forme distorte dei cosiddetti contratti para-subordinati, proprio per la rigidità delle altre tradizionali forme di rapporto di impiego. Insomma, operava alacremente affinché le tutele del lavoro si trasferissero dal singolo posto all’insieme del mercato del lavoro. 



Partiva, in questo, dalla considerazione che ormai era lontana l’epoca in cui le produzioni avvenivano in grandi opifici tayloristici con migliaia di lavoratori in un solo luogo. A un’organizzazione delle produzioni mutata doveva corrispondere anche un cambiamento della modalità di garantire la tutela sociale capillarmente, lavoratore per lavoratore. 

A questo scopo mise in campo una proposta condivisa da ambienti sindacali e imprenditoriali riformatori; una proposta definita grazie a un’opera paziente svolta da lui insieme con esponenti del sindacato e dell’impresa che condividevano una comune impostazione modernizzatrice. Auspicava, più in generale, la regolazione delle materie del lavoro attraverso la libera e autonoma contrattazione tra le parti anziché attraverso decreti e leggi, quale occasione per darsi norme calzanti alla realtà, scaturite proprio dall’esperienza sul campo di lavoratori e imprenditori. 



Il documento – un Libro bianco – fu pubblicamente e violentemente bollato come “libro limaccioso” da buona parte degli ambienti sindacali e politici di sinistra, conservatori e ideologizzati. E così si generò uno scontro culturale e politico lungo e doloroso, che apri i varchi agli assassini, come d’altronde è avvenuto in tanti altri momenti analoghi di cambiamento nel Paese. Il professor Biagi ha pagato, come tanti altri martiri della Repubblica, l’esasperazione cieca delle posizioni sociali ideologiche. 

Io che ho conosciuto Marco e con lui ho collaborato, ho potuto apprezzare la sua umanità, il rigore professionale, l’onestà di pensiero, il coraggio nel sfidare ritardi presenti e minacce ricevute. Una persona desiderosa di dare le gambe dell’esperienza a quelle della ricerca scientifica quale soluzione ottimale per ottenere risultati sul campo.

In questi anni ho notato che tanti che criticavano aspramente in quel tempo le sue proposte oggi danno l’impressione di aver cambiato opinione e magari gli riconoscono i meriti del cambiamento avvenuto. Questo è un bene. Ma alla condizione di riportare alla luce con verità la natura del confronto e dello scontro di quel periodo storico. Fare il contrario sarebbe il modo peggiore per ricordarlo e, soprattutto, una triste beffa rispetto al suo sacrificio.