«La flessibilità è purtroppo un lusso che l’Italia in questo momento non può permettersi, e la ragione è che ci sono ancora troppi pensionati che ricevono un assegno basato sul sistema retributivo». È quanto evidenzia Luca Spataro, professore di Economia Politica all’Università degli Studi di Pisa. In un’intervista uscita sul Corriere della Sera il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, aveva sottolineato: “La flessibilità delle pensioni la volevo già nel 2016; ma non si può fare in due minuti. Dobbiamo trovare i soldi, avere il via libera dell’Europa, individuare una soluzione che non penalizzi i più deboli”. Mentre per il presidente dell’Inps, Tito Boeri, le rigidità della riforma Fornero hanno determinato un blocco che “ha avuto un effetto molto forte sulle assunzioni dei giovani”.
La flessibilità pensionistica potrebbe essere ripagata dal fatto di generare posti di lavoro tra i giovani? La flessibilità è un meccanismo che in una situazione di regime contributivo completo sarebbe neutrale. Non minaccerebbe cioè in nessun modo la stabilità dei conti pubblici, né della previdenza. Il meccanismo di calcolo contributivo, essendo ispirato all’equità attuariale, garantisce che lo stock di pagamenti per pensioni non dipenda dall’età di pensionamento.
Perché allora da mesi si discute di una riforma delle pensioni che poi resta nel cassetto? A differenza di Paesi come Germania, Belgio o Svezia, quando nei primi anni ’90 l’Italia ha riformato le pensioni i nostri politici hanno avuto la sciagurata idea di spaccare le generazioni in due o tre tronconi. Alle generazioni più anziane è stato lasciato il sistema retributivo, e quindi l’onere delle riforme di fatto è stato fatto pagare dalle generazioni più giovani.
I sindacati però insistono sul fatto che minore rigidità sarebbe compatibile con le esigenze di bilancio… Le attuali difficoltà a parlare di flessibilità sono dovute a errori compiuti proprio da coloro che la rivendicano. Oggi i disoccupati sono in proporzione più elevati soprattutto tra i diplomati delle Regioni del Sud. Mentre inoltre i laureati hanno un tasso di disoccupazione del 17%, i diplomati ce l’hanno del 30%. Non c’è quindi nessuna evidenza che la flessibilità per sè possa garantire un turnover generazionale. Occorrono misure più mirate e dirette per ridurre la disoccupazione giovanile.
Perché ritiene che il turnover non sia legato alle pensioni? Perché tutte le manovre effettuate dall’alto, se non trovano un tessuto produttivo e una domanda interna sufficientemente consistenti, rischiano di essere dei colpi a vuoto (come è stato, per esempio, il caso del TFR in busta paga). I lavoratori non sono tutti fruibili allo stesso modo: non si può cioè pensare che un giovane sia esattamente equiparabile a un lavoratore anziano.
Secondo lei, quindi, che cosa si dovrebbe fare?
Ritengo che si debba insistere sulla riduzione del costo del lavoro, soprattutto per le giovani generazioni. Questo è uno strumento sul quale si deve insistere perché è in grado di dare dei risultati, assieme a contratti di lavoro più flessibili (per esempio, il part-time) per i lavoratori anziani. Occorre inoltre un investimento serio sui canali di “matching” che possono aiutare i giovani e le aziende dal punto di vista dell’occupazione. È soprattutto nel segmento medio-basso che è indispensabile una facilitazione nell’inserimento nel mercato del lavoro. In terzo luogo è necessaria una riforma fiscale seria che vada a ridurre pesantemente il costo del fare impresa. Ciò potrebbe avvenire operando una “spending review” seria ed evitando di disperdere le risorse pubbliche in misure generaliste di scarsa efficacia.
Per il ministro Poletti occorre “individuare una soluzione che non penalizzi i più deboli”. È d’accordo con lui?
Poletti ha ragione nel dire che i lavoratori non possono essere ulteriormente discriminati. Assicurare la flessibilità soltanto a chi ha una pensione elevata non è certo un buon criterio. Questo andrebbe a penalizzare ulteriormente quelli che hanno lavorato per tanti anni e hanno una pensione bassa.
Lei come ritiene che vada attuata la riforma delle pensioni?
Personalmente smetterei una volta per tutte di parlare di riforma delle pensioni. La flessibilità è un lusso che purtroppo l’Italia in questo momento non può permettersi, e a evidenziarlo sono le dichiarazioni dello stesso ministro Poletti. Purtroppo le formule di computo delle pensioni scontano ancora adesso delle quote di retributivo. In questo momento parlare di riforma delle pensioni crea soltanto incertezze e paure, che minano poi la forza della domanda interna. I pensionati hanno una propensione al consumo più elevata dei giovani, e questo fatto sostiene il Pil.
(Pietro Vernizzi)