C’era da aspettarselo, e infatti è avvenuto. Rispondendo a una sorta di riflesso condizionato, una specie di richiamo ancestrale, anche questa volta una parte del sindacato affiderà il proprio destino alle piazze, o meglio alle urne. Secondo quanto si è appreso da notizie di stampa, infatti, la Cgil ha deciso di dare il via a una raccolta di firme per la modifica di alcuni punti del Jobs Act, e in particolare quelli relativi alla disciplina dei voucher, alle norme sugli appalti e, ovviamente, alle norme sui licenziamenti. Aspettiamoci quindi la riesumazione di quegli spettacolari dibattiti televisivi sull’articolo 18, sui licenziamenti, sui diritti dei lavoratori che ci hanno accompagnato per lungo tratto del 2015. Non ne sentivate (non ne sentivamo…) la mancanza? Fa niente, mettiamoci l’animo in pace e apprestiamoci a ridiscutere del passato, senza neppure osare allungare lo sguardo sul domani.
La notizia del via al referendum, a dire il vero, non rappresenta una sorpresa inattesa, perché rientra, abbastanza banalmente, nel comportamento consueto tenuto dall’associazione guidata da Susanna Camusso: ferreamente convinta che i corpi intermedi debbano essere regolamentati per legge, la Cgil non può che affidarsi, in ultima istanza, proprio allo strumento più politico che vi sia, le urne, per dirimere questioni che riguardano invece la società, la regolazione dei rapporti tra le parti, oppure, come in questo caso, il futuro del mercato del lavoro.
Il punto, d’altra parte, è proprio questo: come si fa a garantire a tutti gli italiani il “diritto al lavoro”. E, prima ancora, cos’è questo diritto al lavoro? È il diritto al posto di lavoro o a “un certo e ben specifico” posto di lavoro? Probabilmente, uscendo dalle secche delle ideologie vetero-garantiste o neo-liberiste, la risposta è che il diritto al lavoro è, in ultima analisi, il diritto a stare bene in un certo posto di lavoro e l’assicurazione, cioè la sicurezza, che nel corso della propria esistenza vi sia sempre qualcuno, o qualcosa, che ci accompagni nella via della piena occupazione.
Secondo la Cgil, al netto di retropensieri di ordine politico che qui non si vogliono neppure evocare, probabilmente basterebbe reintrodurre l’articolo 18, magari allargandolo a tutti, perché i lavoratori siano più tranquilli (il famoso “non mi possono licenziare”), ovvero si sentano garantiti del fatto che in nessun caso rimarranno senza stipendio. Sono posizioni legittime, certo, ma davvero troppo fuori dalla realtà quotidiana e ideologiche per credere che a esse un sindacato possa legare il proprio domani; anche se si tratta di un sindacato che fa sempre fatica a cambiare e che ultimamente si è distinto soprattutto per essere divenuto la sacerdotessa Vestale di posizioni contro le quali nei decenni scorsi si era pur scagliato con veemente furia distruttrice.
Probabilmente neppure la Camusso crede davvero che, anche ammesso che i referendum passino, così si difendano il lavoro e i lavoratori. L’impressione è invece che si tratti di un tentativo più tattico che strategico: di fronte a un’economia in oggettiva difficoltà, mentre il sindacato è impegnato in una trasformazione epocale e decisiva per il suo destino, con un Governo che ha isolato le parti sociali e che si propone in prima persona come protagonista del cambiamento, la Cgil lancia una sorta di appello al proprio mondo.
La domanda è (apparentemente) esplicita, ma essa è invero meno importante delle implicazioni, non ordinarie, che essa nasconde e senza le quali la domanda stessa perde di interesse e significatività. L’interrogativo che Susanna Camusso rivolge al popolo della sinistra, alla pancia del Paese, infatti, non riguarda l’articolo 18, ma è piuttosto il seguente: “Diteci voi cosa fare: spiegateci se davvero volete che si parli con questa maggioranza. Noi non vorremmo, ma insomma se a voi non dispiace, ecco, allora noi ci piegheremo al vostro volere”. Se il referendum non dovesse passare, infatti, il panorama sarà del tutto diverso da quello attuale.
Aspettiamoci per allora una Cgil non solo assai meno barricadera, ma perfino disponibile a trattare con il Governo su partite più ampie che non il Jobs Act. Perché sullo sfondo c’è sempre la questione della regolamentazione per legge della attività sindacale …
Solo che c’è un “però”. Un piccolo, minuscolo, “però” col quale i vertici cigiellini dovrebbero fare i conti. Da qui ad allora al Governo interesserà ancora parlare con il sindacato? Siamo davvero sicuri che a Renzi possa giovare, nella sua visione e strategia, colloquiare con chi, la Cgil, impiega almeno 3 anni per accettare ogni cambiamento e con chi, tra le altre associazioni, gli ha già messo in mano la propria disponibilità ad accettare una regolamentazione per legge dei sindacati?
Non è che, in fin dei conti, si stia assistendo di nuovo a uno scontro tra due tempi e due diverse accelerazioni? L’impressione, guardando al domani e non all’oggi, infatti, è che da un lato vi sia chi, la Cgil ma anche le altre confederazioni sindacali, mette in scena un rito un po’ bizantino; e dall’altra chi, il Governo, stia valutando se per fare le riforme che ha in mente possa bastare la rapidità garantita dalla fibra ottica o se serva qualcosa di ancor più moderno e performante.
Se così fosse, tra i due schieramenti non c’è partita. Come non ci sarebbe partita tra la squadra di Johan Cruijff e quella di Leo Messi: due campionissimi, ma uno giocherebbe a 10 all’ora, l’altro a 30!