In Italia, l’indice di dipendenza strutturale, ossia il grado di dipendenza economico-sociale tra le generazioni non attive a causa dell’età (0-14 anni e 65 anni e più) e la popolazione attiva (tra i 15 e i 65 anni), si attesta attorno al 55% ed è tra i più alti a livello europeo. L’indice di vecchiaia, invece, è il rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e la popolazione di 0-14 anni. Tale valore ha superato il 157% ed è in continua crescita



I dati di cui sopra, e soprattutto il loro continuo peggioramento, senza che si intravedano elementi significativi di variazione di tendenza, evidenziano in termini numerici quanto, pragmaticamente, possiamo constatare ogni giorno: il nostro è un Paese che invecchia e il peso della popolazione anziana inciderà in misura sempre maggiore sulle ridotte forze lavorative. Ciò che rappresenta un grave elemento di preoccupazione per la tenuta economica e sociale di un Paese, per alcuni è invece, evidentemente, un dato da leggere in termini diametralmente opposti: se aumentano gli anziani e aumenta il rapporto di dipendenza (ossia sono sempre meno quelli che lavorano rispetto alla popolazione inattiva), sarà sufficiente aumentare il numero di questi ultimi (favorendo i pre-pensionamenti) perché si possa far fronte alle esigenze di coloro che (almeno statisticamente) fanno parte della popolazione attiva, in una sorta di inversione utilitaristica dell’indice di dipendenza.



Evidentemente questi non sanno (o fanno finta di non sapere) che i trattamenti pensionistici non sono pagati con i contributi versati durante la vita lavorativa, bensì grazie ai contributi versati dai lavoratori attivi cui si somma la fiscalità collettiva. Se ciò è vero – come è vero -, andrebbe spiegato loro che un aumento complessivo dei trattamenti pensionistici in essere e quindi della spesa previdenziale, necessita del corrispondente aumento di contribuzione della popolazione attiva, la quale, riducendosi numericamente, vedrà aumentare in misura più che proporzionale l’onere pro-capite, che, sommato alla imposizione tributaria, porta il dato della pressione fiscale complessiva ben al di sopra del dato medio europeo e ben oltre la soglia di tollerabilità di un Paese civile.



Detto questo, pare logico che qualunque scelta di prevedere meccanismi di flessibilità in uscita deve avvenire a costo zero: ma non per i pensionati, bensì per i lavoratori, ossia per coloro che oggi finanziano il sistema previdenziale. In altri termini, l’opzione di anticipare l’andata in pensione non può in alcun modo determinare un aumento della spesa previdenziale nel lungo periodo, restando del tutto ininfluenti, invece, le differenze sul breve periodo, posto che le stesse non gravano sulla stabilità attuariale.

Per quanto sopra, l’ipotesi di recente ribadita dal Presidente Boeri di prevedere un meccanismo di flessibilità che permetta di anticipare sino a tre anni il requisito pensionistico, a fronte di una penalizzazione del 3% annuo sul trattamento, deve necessariamente transitare per una corretta valutazione di invariabilità della spesa previdenziale, prima ancora che su valutazioni legate all’opportunità di liberare posti di lavoro in favore dei giovani. La prima valutazione, infatti, è sicuramente quantificabile in termini di worst case, mentre la seconda è di ben difficile misurazione, non foss’altro che il mercato del lavoro è caratterizzato più dalla ricerca di competenze che da mere sostituzioni.

Il timore, però, ancora una volta, è quello di dover registrare un approccio demagogico al tema, in funzione del quale le diverse forze politiche – per tacere di quelle sindacali – tenderanno “elettoralmente” ad assecondare le generazioni anziane che oggi vivono il problema pensioni, rispetto a quelle più giovani che non percepiscono tale problema nell’immediato, ma di cui dovranno farsi carico per il rinnovarsi di quello scellerato patto generazionale che, ancorché mai sottoscritto, saranno chiamate a rispettare.

Come altrimenti spiegarsi il documento di “Analisi su flessibilità anticipata”, elaborato dalla Uil, con cui si sostiene che “le ipotesi circolate in questi giorni sulla possibile introduzione di una flessibilità di accesso alla pensione con una penalizzazione del 3% per ogni anno di anticipo comporterebbe un costo troppo alto per i lavoratori”? È evidente, infatti, il lapsus freudiano del sindacato che fatica a distinguere tra lavoratori e pensionati, posto che, invero, la penalizzazione avvantaggia i lavoratori che – ripeto – sostengono e sosterranno il costo delle pensioni.

Così come lascia basito il fatto che il computo della “Analisi” si limita a quantificare la riduzione del trattamento pensionistico, senza minimamente soffermarsi su quale sarebbe il costo da coprire nel caso in cui tale penalizzazione (ammesso che sia sufficiente) non fosse prevista in tale misura. Purtroppo ci si dimentica che la riforma Fornero ha quantificato un risparmio sulla spesa previdenziale di circa 80 miliardi in 10 anni e qualunque modifica volta a ridurne gli effetti ha un costo che qualcuno, prima o poi, sarà chiamato a pagare.