«Sulle pensioni va introdotto un pacchetto flessibilità composto da una serie di misure che vanno dall’incentivo al part-time per chi è vicino alla pensione, al sostegno alle aziende che vogliono puntare sul ricambio generazionale con l’agevolazione all’esodo, alla decurtazione in percentuale dell’assegno». È la proposta della senatrice Annamaria Parente, capogruppo del Pd nella commissione Lavoro. Il governo si è espresso più volte a favore di misure che vadano nella direzione della flessibilità in uscita, correggendo le rigidità della riforma Fornero, anche se finora l’esecutivo non ha specificato come intende concretizzare questa dichiarazione di intenti. Intanto il 2 aprile i sindacati scendono in piazza per chiedere misure in tempi rapidi.
Secondo lei perché il governo, dopo avere annunciato la riforma delle pensioni, continua a rimandarla? In realtà è questo l’anno in cui il governo ha annunciato che introdurrà misure di flessibilità in uscita nel sistema pensionistico. Non a caso, a dicembre, in occasione dell’esame della legge di stabilità 2016 in Senato, l’Esecutivo ha dato parere favorevole a un mio ordine del giorno che lo impegnava proprio ad affrontare la questione e ad andare incontro alle esigenze espresse dalle lavoratrici e dai lavoratori riguardo ai tempi di uscita dal lavoro. Non si è mai parlato di riforma delle pensioni, però, ma sempre e solo di meccanismi di flessibilità. Dunque non c’è alcun rinvio, ma solo la volontà di parlare di un intervento oneroso al momento opportuno, quando sarà possibile presentare al tavolo delle trattative una proposta concreta e sostenibile, che non penalizzi proprio chi ha già l’assegno più basso. Trovo che da parte del governo questa prudenza sia responsabile e seria.
Il 2 aprile i sindacati scendono in piazza per chiedere la flessibilità pensionistica, ma il governo non li ha ancora convocati. Ci vorrebbe maggiore dialogo governo-sindacati sulle pensioni? Guardando la situazione dal Parlamento, penso che i sindacati stiano sostenendo in modo legittimo le loro posizioni e gli interessi dei lavoratori e dei pensionati e che l’Esecutivo, in modo altrettanto legittimo, ritenga di doversi esporre al momento più opportuno, quando i tempi saranno maturi per una proposta concreta. Peraltro, mi risulta che il ministro Poletti non abbia nascosto che è questo il suo pensiero, anche in recenti interviste. Le chiacchiere sono inutili, inadeguate a una questione molto sentita nel mondo del lavoro. E il tempo delle promesse non mantenute è finito, come Pd e come governo assumiamo solo impegni che possiamo mantenere.
Boeri ha proposto un anticipo di tre anni con una penalizzazione del 3% annuo. Questo verrebbe a costare di meno rispetto alla proposta di Damiano, che prevede 4 anni di anticipo e una penalizzazione del 2%. La proposta di Boeri potrebbe essere un buon compromesso? Per prima cosa sottolineo ancora che la flessibilità in uscita ha un costo e che questo rappresenta il più importante scoglio da superare. Ogni proposta, in astratto, può essere giudicata positiva, ma le scelte politiche si distinguono dalle semplici idee perché devono avere gambe per camminare. In ultima analisi, chi decide deve sempre stabilire dove allocare le risorse, per definizione scarse. Detto questo, io ritengo che il tema della flessibilità vada affrontato a partire dalla sua complessità, non dalle penalizzazioni. Come ho già detto, i tempi non sono ancora maturi per entrare nel dettaglio, perché tutte le ipotesi in campo vanno valutate dal punto di vista della sostenibilità. Io penserei piuttosto all’introduzione di una sorta di “pacchetto flessibilità”, composto da una serie di misure che vanno dall’incentivo al part-time per chi è vicino alla pensione (già sperimentato con la legge di stabilità 2016), al sostegno alle aziende che vogliono puntare sul ricambio generazionale con l’agevolazione all’esodo, alla decurtazione in percentuale dell’assegno. E poi c’è tutto il tema del rafforzamento della previdenza alternativa, sul quale in Italia ancora molto si deve fare. Non interverrei invece, almeno in questo momento, al livello normativo, ma grazie al “pacchetto” di strumenti, punterei sulla ripartizione dei costi della flessibilità tra Stato, lavoratori, aziende. In ogni caso, per ora siamo al balletto dei numeri, ma è chiaro ai miei occhi che la soluzione non può finire col pesare troppo sulle lavoratrici e sui lavoratori: tra la proposta Boeri e quella Damiano, sceglierei la seconda.
Secondo Boeri, “per sei lavoratori su dieci le pensioni saranno più basse di quanto si aspettano”. Intanto una parte degli attuali pensionati gode ancora dei benefici del vecchio sistema retributivo. C’è un problema di equità generazionale che va risolto?
Il problema di equità generazionale non c’è soltanto in uscita, ma anche e soprattutto al momento dell’ingresso delle ragazze e dei ragazzi nel mondo del lavoro. È un problema di opportunità concrete di lavoro stabile e giustamente, a mio avviso, il governo Renzi ha deciso di iniziare ad affrontare la questione dell’immobilismo storico del nostro sistema del lavoro proprio a partire da questo aspetto. Il Jobs Act è stato pensato e realizzato con questo scopo. Insieme con gli incentivi, ha contribuito al raggiungimento dell’obiettivo di un milione di contratti stabili in più nel 2015. Ridare centralità al contratto a tempo indeterminato, anche per i giovani, significa cominciare ad aggredire anche la questione dell’equità al momento del pensionamento. Del resto, credo che la proposta avanzata dal presidente Boeri di ricalcolare con il contributivo, e quindi di tagliare, tutte le vecchie pensioni al di sopra dei 3500 euro attualmente erogate con il retributivo e di tagliare anche buona parte dei trasferimenti assistenziali, sia incostituzionale. Tra l’altro, le ipotesi avanzate dal presidente dell’Inps, che pure presentano elementi di equità, non sarebbero state sufficienti a coprire la flessibilità in uscita.
In molti affermano che senza le rigidità della legge Fornero l’occupazione giovanile aumenterebbe, ma il legame tra le due cose non è mai stato provato. Lei che cosa ne pensa?
Chi parla della riforma Fornero solo in questi termini si scorda della situazione contingente in cui è stata varata. L’Italia era un osservato speciale, dovevamo portare risultati di risanamento dei conti pubblici in tempi brevi, pena il default economico e il commissariamento europeo nei fatti. Il governo Monti aveva ereditato dal governo Berlusconi una situazione al collasso, le scelte difficili sono state purtroppo necessarie. Detto questo, è chiaro che l’innalzamento dell’età pensionabile ha un effetto anche sull’occupazione giovanile, ma la scelta del governo Renzi di creare opportunità concrete di lavoro stabile per i ragazzi, agganciando la ripresa con il Jobs Act, è stata vincente. Anche per varare il Jobs Act c’è voluto del coraggio, ed è stato uno choc salutare del sistema: solo abbattendo la precarietà e ristabilendo la centralità del contratto a tempo indeterminato anche per le giovani generazioni si può pensare di riequilibrare il nostro mondo del lavoro, nel lungo periodo. Per permettere un giorno anche di diminuire l’età pensionabile, se serve.
(Pietro Vernizzi)