È dei giorni scorsi la notizia che è stato firmato dal Ministro Poletti il Decreto attuativo che regolamenta il cosiddetto “part-time agevolato” introdotto con l’ultima Legge di stabilità. La norma prevede che i lavoratori del settore privato – che possano vantare almeno vent’anni di contribuzione e che maturino entro il 31 dicembre 2018 il requisito anagrafico – possano accordarsi con l’azienda per trasformare il contratto a tempo pieno in contratto part-time (con una riduzione dell’orario tra il 40% e il 60%), in cambio del relativo trattamento retributivo aumentato di un importo non tassabile, pari ai contributi che il datore di lavoro avrebbe dovuto versare sulla parte di differenziale di stipendio dovuto se il contatto di lavoro fosse rimasto invariato. Inoltre, il lavoratore non subirà alcuna penalizzazione sul trattamento pensionistico in maturazione, posto che allo stesso saranno comunque riconosciuti quali contributi figurativi quanto non versato dal datore di lavoro direttamente all’Inps.L’intento del legislatore sarebbe quello di favorire l’invecchiamento attivo, favorendo un’uscita graduale dal mondo del lavoro e quindi un ricambio generazionale. Sul punto è doveroso sottolineare che la norma ha carattere sperimentale e come tale dev’essere valutata, soprattutto al fine di comprenderne la reale portata in termini di strumento di flessibilità.



Partiamo proprio da questo primo aspetto per rilevare che l’accompagnamento all’uscita del lavoratore anziano ha un costo per la collettività: i contributi sono infatti figurativi solo per chi se ne avvantaggia mentre, rappresentando un onere per il bilancio statale, si traducono di fatto in costo a carico della restante popolazione attiva.La misura dovrà essere valutata attentamente dall’azienda, la quale, se è vero che vedrà ridotto il costo retributivo complessivo per effetto della riduzione dell’orario di lavoro, rileverà un costo medio orario di impiego superiore, dovendo riconoscere al lavoratore l’ulteriore importo pari alla contribuzione non versata corrispondente alle ore non lavorate. Con la conseguenza che la stessa può registrare un’utilità soprattutto in due casi opposti: qualora non si abbia più necessità delle competenze possedute dal lavoratore in uscita, ovvero qualora lo stesso possa svolgere una concreta funzione di tutoraggio in favore del neo-assunto.



Nel primo caso, infatti, l’azienda, non ricevendo più utilità marginale dall’impiego del dipendente tenderà a ridurne l’onere relativo, riducendone anche l’impegno nel processo produttivo; nel secondo caso, invece, l’esigenza di affiancamento, solitamente circoscrivibile in termini di orario, può essere facilitata dalla rivisitazione del contratto nei termini previsti dal nuovo istituto. L’attrattività del nuovo strumento si riduce invece sensibilmente laddove il lavoratore possa ancora contribuire fattivamente all’attività e sia però rapidamente sostituibile una volta maturato il diritto alla pensione. In altri termini, la misura, più che essere volano di ricambio generazionale (favorire una maggiore flessibilità in uscita che si traduce in aumento dell’occupazione giovanile), risulta essere solo strumento operativo per agevolare una scelta aziendale che origina da ben altri fattori (necessità di limitare un costo di dipendenti non più produttivi ovvero l’esigenza di tempi medio/lunghi per il trasferimento di competenze).



L’impressione (vedremo se saremo contraddetti dai fatti) è che anche questa norma, dettata da un approccio assistenzialistico al tema, rischi di mostrare poco appeal. Purtroppo, l’idea, ancora fortemente radicata e professata, che il problema occupazionale del nostro Paese possa essere risolto favorendo un meccanismo di “porte girevoli” (favoriamo la flessibilità in uscita affinché possiamo impiegare le nuove generazioni), non tiene conto di tre elementi fondamentali: a) non si creano posti di lavoro per legge e qualunque intervento normativo risulta poco efficace se non si agisce con misure in favore dello sviluppo d’impresa; b) il mercato del lavoro nei paesi sviluppati si caratterizza sempre più per la ricerca di competenze e non per il mero ricambio di teste; c) esempi di altri paesi con elevati tassi di occupazione giovanile, presentando, altresì, elevati valori di impiego nelle fasce più anziane dei lavoratori, dimostrano che non è riducendo queste ultime che si riduce la disoccupazione delle fasce più giovani, le quali – paradosso di una scelta di questo tipo – dovrebbero anche farsi carico dell’onere che questa “flessibilità” può produrre.

Twitter @walteranedda