Prosegue anche in questa settimana, che si conclude con la celebrazione del Primo maggio, la raccolta di firme, da parte della Cgil, per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla “Carta per i diritti universali del lavoro”. Secondo il sindacato di Corso Italia, questa “Carta” rappresenta, o almeno dovrebbe rappresentare, la riscrittura del diritto del lavoro nel nostro Paese in nome di un principio di uguaglianza che travalichi le varie forme e tipologie nelle quali questo si è diversificato e frammentato negli ultimi anni. 



Il documento, un testo articolato e complesso, composto da ben 97 articoli, propone, infatti, un “nuovo” Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori, che estende diritti a chi non ne ha e li riscrive per tutti alla luce dei grandi cambiamenti di questi anni, rovesciando l’idea, almeno secondo i proponenti, che sia l’impresa, il soggetto più forte, a determinare le condizioni di chi lavora, il soggetto più debole.



I diritti fondamentali individuati in questa piattaforma sono assai variegati e vanno dal compenso equo e proporzionato alla libertà di espressione al diritto alla sicurezza al diritto al riposo, ma anche alle pari opportunità e alla formazione permanente. Si immagina, inoltre, la ridefinizione dei principi universali che dovrebbero dare efficacia generale alla contrattazione in base a regole di democrazia e rappresentanza valide per tutti e la riscrittura dei contratti di lavoro.

A questa proposta si affianca la raccolta firme a favore di tre quesiti referendari abrogativi del Jobs Act che hanno come oggetto tre temi: la cancellazione del lavoro accessorio (i cosiddetti “voucher”), la reintroduzione della piena responsabilità solidale in tema di appalti e una nuova tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per tutte le aziende al di sopra dei cinque dipendenti. La festa del Primo maggio sarà, insomma, un modo per rilanciare queste battaglie.



Colpisce, tuttavia, che la Cgil attacchi, ancora una volta, un Governo guidato dal Partito democratico che sarebbe dovuto essere, almeno sulla carta, vicino alla storia, alle sensibilità e al mondo che il sindacato della Camusso e di Landini rappresenta. Evidentemente non è più così. 

Da questa constatazione dovrebbe nascere, quindi, una riflessione all’interno del sindacato “rosso”, ma non solo, su quale sia, oggi, al tempo del Jobs Act, il ruolo di moderne parti sociali in grado di tornare a incidere sulle scelte del legislatore e delle maggioranze parlamentari e di stimolare, nuovamente, la partecipazione a queste forme associative che, troppo spesso, sembrano rimaste nel secolo scorso e che rischiano di autorottamarsi.

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