Il Presidente dell’Inps ci ha abituato a dichiarazioni shock (sulla cui opportunità o meno non saprei pronunciarmi) ormai con cadenza settimanale: qualche giorno fa ha tirato in ballo la generazione del 1980, che vedrà allontanarsi il limite di età pensionabile fino a 75 anni. Nel corso del suo intervento al “graduation day” Altems dell’Università Cattolica, ha dichiarato – secondo fonti di stampa – che per un lavoratore tipo si potrà verificare “una discontinuità contributiva, legata probabilmente ad episodi di disoccupazione, di circa due anni”. Tale discontinuità peserà, naturalmente, sul raggiungimento dei requisiti pensionistici, che ritarderebbero l’uscita dal mondo del lavoro anche fino a 75 anni.
Nelle sue accuse punta quasi sempre l’indice su quella che potrebbe essere definita un’iniquità generazionale tra chi alcuni decenni fa ha beneficiato di generosi regimi pensionistici (vedi, ad esempio, la dichiarazione di poco tempo fa sul numero eccessivo di “baby-pensioni”) e chi sarà costretto a lavorare fino a tarda età, sempre che ci arrivi con un sufficiente grado di integrità mentale.
La nuova dichiarazione ha senza dubbio un pregio: quello di aver messo in luce, a mio avviso, il limite che ha guidato finora le varie riforme del sistema pensionistico, basate quasi esclusivamente su un calcolo legato alla speranza di vita. L’allungamento della vita media nei Paesi occidentali, dovuto sostanzialmente a un progressivo benessere benché il 2015 abbia registrato il tasso di mortalità (10,7 per mille) più alto dal secondo dopoguerra in poi, ha continuato a determinare sia il prolungamento dell’età pensionabile, sia l’adozione di coefficienti di trasformazione in rendita più stringenti rispetto al passato. L’assunzione di base è stata una certa regolarità contributiva, che presuppone a sua volta una certa regolarità della vita lavorativa. In realtà, il verificarsi di battute di arresto è oggi assai più frequente che in passato, sia per la crisi economica, che stenta a lasciarci, sia per il profondo mutamento della fisionomia stessa del lavoro.
Secondo le medie calcolate dall’Inps, la classe 1980, formata per l’82% da lavoratori dipendenti, avrebbe 656 settimane (circa 12 anni) di contributi accreditati a partire dal mese di febbraio 2001, cioè da quando ha cominciato a lavorare, con una carenza di 112 settimane (circa 2 anni, come ha detto Boeri). Il numero di pensioni anticipate, cioè erogate sulla base dei requisiti contributivi fissati dalla legge, è stimato pari al 38,67%, mentre la prima data utile per ottenere la pensione di vecchiaia, il 2050 a 70 anni, vedrà l’accesso al pensionamento del 51,66% dei lavoratori della classe, cioè poco più della metà; l’ulteriore 9,67% dovrà attendere progressivamente i 75 anni (decorrenza 2055). Immaginando poi scenari futuri con contribuzione piena o con interruzioni di 10 anni, alla prima data utile di accesso al pensionamento (2050) vi sarebbe uno scarto del 20% circa tra il numero di pensionamenti nelle due ipotesi (con o senza carriere interrotte).
Il confronto con la classe 1945 è davvero improbo: il numero di pensioni anticipate raggiunge complessivamente il 78,36%, mentre solo il 10,68% ha dovuto attendere i 65 anni per la pensione di vecchiaia con decorrenza 2010. Anche sul versante degli importi non c’è partita: per la classe 1980 ci attestiamo su un importo medio di 1.593 euro a fronte di 2.106 per la classe 1945.
I ragazzi del 1980 sono ormai trentacinquenni e, quindi, professionalmente parlando, già sul viale del tramonto. Considerando fasce di età inferiori, le cose peggiorano: guardando ai dati 2014, per i lavoratori dipendenti rispetto alla media complessiva di giornate retribuite, pari a 242, si riscontrano valori molto bassi tra i lavoratori sotto i 20 anni (86 giornate) e nella classe 20-24 anni (173 giornate), con retribuzioni medie annue molto modeste (tra 3.882 e 9.413 euro) che, ovviamente, si ripercuotono sulle future pensioni. Si tratta anche delle fasce di età più vessate dalle varie forme di precariato, quali ad esempio si manifestano nell’esplosione dell’utilizzo dei voucher per il lavoro occasionale/accessorio, cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi anni (66% nel 2015), dietro al quale si nascondono evidentemente forme di sfruttamento, che riguardano soprattutto i giovani (31%) e le donne (oltre il 50%), per un totale di circa 1,4 milioni di persone.
A questi problemi, il governo non sembra cercare una risposta organica, almeno per ora, salvo qualche puntello al consenso, come dimostrano le recenti uscite sull’estensione del bonus di 80 euro alle pensioni minime, sulla previdenza complementare (alla quale vorrei dedicare un’analisi separata), sul prestito pensionistico e sull’uscita anticipata con penalizzazioni. Ci sono poi i vincoli di bilancio, gli unici a cui questa Europa sembra sensibile e che difficilmente potranno essere derogati per aumentare, almeno nel breve termine, la spesa pensionistica, a meno che non si voglia agire sulle pensioni in corso di erogazione: cosa però che è stata scartata in ogni modo. Del resto, siamo alla vigilia di un’importante prova elettorale.