Il primo maggio compie 132 anni. Allora gli operai di Chicago furono ferocemente colpiti dalla polizia con morti e feriti, per aver rivendicato condizioni di lavoro migliori. E così le organizzazioni internazionali sindacali decisero che ogni anno, in quella data, il ricordo di quegli eventi doveva simboleggiare la giustizia sociale e la democrazia da affermare in ogni angolo della terra. Un’era diversa quella, ma ancora oggi la Festa del lavoro richiama operai e impiegati nelle piazze di tutto il mondo libero. Nei Paesi oppressi, pur non potendosi commemorare apertamente, i lavoratori trovano i modi per tenere viva la tradizione, per segnalare la propria presenza impegnata e di protesta.
Da qualche anno, nei Paesi a tradizione democratica, nella giornata del primo maggio, i sindacati dei lavoratori mettono in risalto l’avvenuto cambiamento di rapporto di forza tra il lavoro e il potere finanziario, che nella globalizzazione ha ingigantito la propria forza, facendo ridurre di fatto il potere politico democratico. La finanza è organizzata sul piano globale, gli Stati, anche i più potenti, non riescono a tenere testa a essa. Ma occorre reagire in Europa e nel mondo.
Gli spazi organizzativi, contrattuali e un contesto politico indebolito hanno compromesso il ruolo finora svolto nella società dalle associazioni del lavoro. In questo quadro, i corpi intermedi vengono spinti verso l’impotenza a causa della verticalizzazione del potere politico sostenuto dal dilagare del populismo, che ha di fatto sbriciolato gli strumenti e i luoghi della partecipazione. Cosicché gli interessi popolari vengono meno considerati.
L’esperienza italiana dell’ultimo ventennio ben descrive quello che avviene in diversi Paesi europei: esaurita la fase storica dei partiti della prima costruzione della Repubblica, le grandi confederazioni non potevano che indebolirsi. Le organizzazioni intermedie, nate dalla necessità di dare risposte immediate alle istanze sociali, sono state di fatto il campo di semina per la produzione delle classi dirigenti dei principali partiti storici di massa.
Oggi la situazione è cambiata; la selezione delle classi dirigenti politiche non proviene dal terreno dell’impegno sociale, bensì da soluzioni di fatto plebiscitarie, quando non con sistemi cooptativi. Ecco perché lo scollamento tra la realtà politica e il sociale organizzato non può che approfondirsi nel prossimo futuro. La stessa natura della profonda crisi economica deriva dalla perdita di senso presente nell’ambito politico e nel sociale. Senza un disegno sostenuto da leadership portatrici di istanze filtrate da processi di partecipazione in grado di dominare le scelte difficili sarà impossibile dare ordine a priorità e assicurare governo ai processi di decisione orientati agli interessi generali.
Nell’attuale scenario non si giustificano più tante sigle di associazioni sindacali e anche imprenditoriali. La loro riorganizzazione riguarda non solo l’efficienza delle relazioni sindacali, ma anche quella della dimensione politica e delle istituzioni. Una sola confederazione sindacale che organizzi tutte le espressioni categoriali finora affiliate nelle grandi centrali e in quelle autonome non potrà che aiutare a esaltare le rappresentanze sociali con effetti benefici generali. Per le stesse motivazioni le rappresentanze imprenditoriali dovranno superare la loro frammentazione arricchendo la loro rappresentanza.
Un sociale più potente e riorganizzato scuote il sistema asfittico dei partiti e non potrà che arginare il dilagare dei poteri forti che generano senso di impotenza tra la gente, rendendo il terreno del populismo più fertile e più temibile. Ritrovare la radice della propria storia nel riconoscere ciò che la storia di oggi chiede è il miglior servizio al lavoro italiano e agli interessi generali del Paese.