Com’è noto ai commentatori, i sindacalisti sono appassionati a ragionare di regole del lavoro, sono esperti, al pari di giuslavoristi, direttori del personale e funzionari delle organizzazioni dei datori di lavoro, di norme contrattuali e legislative, sono protagonisti, loro malgrado, di dibattiti e dispute sugli scenari economici in cui sono inseriti settori merceologici e comparti produttivi e all’interno di essi aziende, enti e istituzioni economiche. Sono attori della rappresentanza sociale e sindacale, coinvolti in processi sociali e chiamati nella negoziazione delle conseguenze di operazioni di riorganizzazione e ristrutturazione, con effetti rilevanti sulla quantità/qualità dell’occupazione di siti produttivi, organizzativi e commerciali, di natura pubblica o privata.



Ma con il tempo che passa, con le diverse innovazioni all’orizzonte, si avverte il limite del dibattito sindacale ed economico intorno alle caratteristiche del lavoro e delle sue evoluzioni (e forse anche involuzioni), troppo incentrato sulle esteriorità, sui suoi connotati fisici, sulle regole appunto, seppur decisive nei processi che continuano a manifestarsi. Si avverte il limite anche in rapporto alla diminuzione delle opportunità di lavoro, nonostante i dati recenti su cui poi ci soffermeremo anche se in modo sommario; ma, forse, più che sulla sua contrazione e sulla sua instabilità crescente, sono alcuni elementi del dibattito in corso che pongono seri interrogativi intorno alla questione lavoro in quanto tale.



Si ha quasi la percezione, sottile e in parte nascosta, che i processi in divenire, correlati allo sviluppo tecnologico, alla digitalizzazione e alla dematerializzazione, all’internet delle cose e a ciò che ruota intorno a “….4.0”, smart working compreso, pongano questioni decisive ed epocali intorno al senso e alla pregnanza della vicenda lavoro, modalità nobile e moralmente condivisa del procurarsi materiale di ciò con cui vivere, cioè il reddito derivato da un’attività.

In questo senso è una festa del lavoro un po’ particolare questa del 1 maggio 2016, perché si pongono interrogativi crescenti intorno al senso del lavoro, del significato che ha avuto storicamente per molteplici generazioni di persone in ogni parte del mondo. Questo significato sta cambiando perché stanno cambiando i paradigmi stessi del lavoro: non si tratta più solo e soltanto di dibattere di costi e regole, di legge e contratto, di impiego protetto o in balìa del mercato, ma di senso e di ruolo del lavoro nella trasformazione delle materie per realizzare il bene comune, per collaborare a servire il creato, per rendere più umano l’umano stesso, per dirla con la straordinaria enciclica di papa Francesco “Laudato sì’”.



Il lavoro può ancora essere fonte di relazione? Può ancora contribuire, nella fatica manuale e intellettuale, a richiamare la ragione dell’esistenza della persona? Possiamo ancora spaccare pietre per costruire cattedrali? Queste domande radicali come possono essere collocate e avere risposte adeguate nel lavoro somministrato ovvero incerto per sua natura, come vediamo costantemente nelle esperienze degli associati alla Felsa-Cisl? Come possiamo incrementare reti relazionali significative nel lavoro condiviso in modo frammentario e temporaneo dei co-working, a cui peraltro la Cisl contribuirà a realizzarli in molte città con un piano straordinario e collegato alla nascita di una specifica associazione delle partite Iva? E come possiamo ritrovare senso e significato all’azione sindacale nella solitudine esistenziale e materiale dei nuovi lavori, chiamati (diplomaticamente) a essere realizzati in forma “remota”?

L’accusa al sindacato di conservatorismo è dietro l’angolo, relegati culturalmente come anti-moderni e con il freno a mano tirato nei processi indotti dalla tecnologia: in parte è così, perché non ammetterlo? Siamo un po’ conservatori non per natura, ma per segnalare la necessità di accompagnare i processi con soglie di accettabilità sociale, contenendo e limitando la velocità di poteri che rischiano di non guardare in faccia nulla e nessuno, per dirla come si dice dalle nostre parti.

Le domande ci attanagliano nonostante, come detto, la lettura (e la rilettura) delle encicliche sociali e di altri saggi e contributi di uomini e donne appassionate alle condizioni esistenziali. Ma le domande sono utili in quanto ci permettono di ricercare risposte non scontate, frutto di un dibattito sereno, libero e appassionato sulla realtà (e non sulle nuove ideologie).

Festeggiamo allora il 1 maggio anche in questo 2016, con i dati Istat che ci confortano in quanto alle dinamiche occupazionali: sono frammenti e segnali di un processo di attenzione al lavoro che, tuttavia, non ci possono far dire che la crisi è alle spalle. E forse anche questo paradigma non è più utile, dovremo abituarci a trend altalenanti, a transizioni continue, al venir meno della stabilità e della crescita a somma sempre positiva.

La Cisl festeggia il primo maggio 2016 con le altre organizzazioni sindacali confederali a Genova, ma avverte che le domande delineate, accanto ad altre (quali, ad esempio, cosa significa condividere o vivere la condivisione dei beni) non potranno essere sospese o collocate solo nell’area seminariale e dei convegni.

La Cisl intende domandarsi e domandare ad altri soggetti collettivi, sensibili all’esperienza sociale e sussidiaria e di diverse estrazioni culturali, a tutti quelli disponibili, di ricercare sedi e luoghi per queste riflessioni, per innescare qualche itinerario che aiuti tutti ad affrontare le urgenze e le importanze del nostro tempo, consapevoli della loro pregnanza nell’economia dei beni e dei servizi che, per noi, dovrà mantenere sempre al centro le persone.

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