Il nuovo ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, è stato per breve tempo ambasciatore a Bruxelles. Se si considerasse solo il fatto che è noto per essere un renziano di ferro, la mossa del primo ministro potrebbe a prima vista apparire come una scelta conservatrice, fondamentalmente destinata a non dare nessuna svolta significativa alla politica del suo Governo. Guardando a essa con maggiore attenzione, invece, potrebbe emergere al riguardo un parere più sfumato, meno netto.



In effetti Carlo Calenda, vero enfant prodige della Roma bene dei primi anni Duemila, prima del breve incarico europeo era già stato viceministro allo Sviluppo. Era stato spedito, è bene ricordarselo, in Belgio perché il suo predecessore come ambasciatore italiano presso l’Ue, Sannino, era considerato da Renzi troppo morbido, o meglio troppo europeista in una fase politica nella quale invece per l’ex sindaco fiorentino occorreva un piglio più duro. 



Calenda ritorna perciò da dove era venuto: al ministero dello Sviluppo ove, infatti, era titolare del cosiddetto dossier Cina, ovvero del procedimento che dovrebbe consentire alla Cina il riconoscimento dello status di economia di mercato. 

La sua esperienza industriale (dal 2004 al 2008 ha lavorato in Confindustria) si è sempre, o meglio spesso, coniugata con la sua attenzione ai temi internazionali e allo sviluppo dell’economia su mercati non tradizionali o comunque in Paesi che potrebbero garantire un miglior futuro al nostro sistema industriale, tant’è che tutti se lo ricordano come attivo protagonista nel corso di numerose missioni internazionali di imprenditori e associazioni di impresa italiane. Da lui dovremo aspettarci una più decisa penetrazione economica in mercati mondiali strategici, come sono quelli di India, Cina, Brasile, Russia, Emirati Arabi Uniti, ma anche in realtà meno performanti e che sembrano però destinate, nel giro di non molti anni, a sfondare, come Tailandia, Kazakistan, Egitto, Turchia, Algeria, Tunisia e Marocco. Per non parlare dei vicini, e strategici non solo economicamente, Paesi europei quali Serbia, Romania e Bulgaria.



Il neo ministro, però, dovrà gettare uno sguardo anche su quei dossier che si sono accumulati al Mise e che riguardano decine, centinaia di migliaia di lavoratori italiani, dipendenti di aziende in crisi. Certo la sua esperienza internazionale potrebbe consentirgli di indicare vie nuove e alternative rispetto a quelle fin qui esplorate per traghettare imprese in fortissima crisi fuori dalle secche in cui si trovano. Ma presumibilmente ciò non basterà e Calenda sarà costretto a trovare risposte nelle pieghe del suo bilancio e usando i nuovi strumenti messi a punto proprio dal suo Governo.

Vediamo un attimo quali sono, almeno a grandi linee, i fascicoli aperti: si va dalla presentazione del piano “Manifattura Italia”, alle misure da inserire nel prossimo decreto per la crescita “Investment compact 2”, (che dovrebbe uscire entro poche settimane e dal quale ci si attendono agevolazioni per l’accesso delle imprese al credito alternativo alle banche e per facilitare l’attrazione di investimenti, oltre a un pacchetto di semplificazioni fiscali), al Ddl concorrenza, che è stato varato dal governo oltre un anno fa ma che da allora s’impolvera presso la commissione Industria del Senato. 

Sul piano più strettamente industriale un dossier delicatissimo, forse quello più importante anche per la sua significatività mediatica, è quello che ruota attorno alla vendita dell’Ilva, il gruppo espropriato ai Riva e nel quale sono occupate diverse migliaia di lavoratori. Il caso Ilva è reso complesso dalla quantità di denaro pubblico messo sul piatto (ricordiamo gli 800 milioni di garanzia e i 300 di prestito ponte) e dal fatto che su di esso si coagulano gli interessi della famiglia del presidente dell’Eni, Emma Marcegaglia. A oggi si sono dichiarati interessati all’acquisto 29 soggetti, e ora la procedura dovrebbe proseguire per concludersi entro il 30 giugno con la scelta della società o cordata che si aggiudicherà il polo siderurgico.

Sullo sfondo poi c’è l’ordinaria amministrazione: i tavoli aperti sulle crisi aziendali sono 154 e riguardano piccole, medie e grandi imprese. Limitandoci ai dossier più significativi e urgenti, segnaliamo quello che riguarda le società di call center: nei prossimi mesi circa 8mila persone rischiano il posto di lavoro. Ma altrettanto calde sono le questioni inerenti Almaviva, che ha dichiarato 3mila esuberi, e Gepin Contact che invece si “ferma” a soli 350 licenziamenti. 

Se non bastassero si aggiungano i quasi mille lavoratori della compagnia aerea Meridiana sui quali pende la minaccia di licenziamento. Ferma da tempo è poi la vertenza Eni Versalis: il gruppo petrolifero di proprietà pubblica vuole cedere, infatti, al fondo americano Sk Capital il pacchetto di maggioranza della sua controllata che opera nel settore della chimica e della raffinazione. A oggi la Eni Versalis conta oltre 4mila dipendenti in Italia e ogni scelta rischia di ingenerare, a parere dei sindacati, pesanti ricadute occupazionali.

Insomma, molto è il lavoro da fare, poco il tempo. E non basteranno le consuete dichiarazioni pubbliche a far avanzare la soluzione dei problemi, perché il Mise è il Ministero, se ve ne è uno, da cui dipende davvero lo Sviluppo del nostro sistema economico. E per ora il Pil progredisce sempre del solito, miserrimo, 0,1% mensile! Come dire che la crisi del nostro sistema manifatturiero e produttivo è tutto tranne che un ricordo.