Ci sono più analogie di quanto si potrebbe a prima vista pensare fra lo scontro di trent’anni fa sulla scala mobile e la situazione che stiamo vivendo oggi. Come giustamente si osserva nel libro “Il divorzio di San Valentino – Così la scala mobile divise l’Italia” di Giorgio Benvenuto, «i problemi che diedero vita a quella sorta di “guerra dei mondi” sono diventati elementi stabili di un lascito ereditario che viene trasmesso da una generazione all’altra di italiani». E anzi i nodi irrisolti si sono fatti ancora più «intricati».
Non siamo rimasti fermi naturalmente a quella fase di aspro confronto che lacerò soprattutto la sinistra e il sindacato. Ma è come se un percorso che allora era più difficile intuire nei suoi sviluppi, oggi apparisse ben più delineato. Con la sua incompresa capacità profetica, già all’inizio degli anni ’70 Pier Paolo Pasolini aveva colto quale sarebbe stata la direttrice di marcia della trasformazione neocapitalistica della società verso un mondo unificato «dalla necessità della produzione e del consumo». Una vera e propria rivoluzione che, osservava, «si pone come competitrice con le forze del mondo che vanno a sinistra. In un certo modo va essa stessa a sinistra. E fatto strano, andando (a suo modo) a sinistra tende a inglobare tutto ciò che va a sinistra. Davanti a questo neocapitalismo progressista e unificatore si prova – continuava Pasolini – un inaudito sentimento (senza precedenti) di unità del mondo». Non è quello a cui stiamo assistendo oggi nel suo dispiegamento sempre più onnicomprensivo che caratterizza le cosiddette società avanzate? Quelle società alle quali, quasi per un riflesso condizionato, sembra obbligatorio guardare come modello di qualunque cosa si tratti.
Negli stessi anni di Pasolini, su posizioni solo apparentemente molto distanti, ma in realtà assai contigue, Augusto Del Noce, uno degli ultimi veri filosofi che il nostro Paese ha prodotto, denunciava «il rovesciamento delle intenzioni» che vedeva il pensiero di Gramsci diventare «l’ideologia del consenso comunista all’ordine tecnocratico neocapitalistico». Un fenomeno che lui stesso sintetizzò parlando della trasformazione del Pci in un partito radicale di massa.
Ho voluto richiamare questi che ritengo siano i connotati culturali di fondo di un processo di trasformazione che ha di fatto travolto il sistema politico e quello della rappresentanza, ma che insieme ha visto anche un progressivo inaridimento di quella anomalia virtuosa che è stata la spinta propulsiva e la spina dorsale dello sviluppo economico e sociale dell’Italia. Un mix straordinario fatto di genialità, capacità di lavoro, spirito imprenditoriale, amore del bello, volontà di offrire a ognuno una condizione di vita decorosa. Il già citato Pasolini aveva parlato di un «genocidio culturale» degli italiani. Potrebbe suonare come una definizione forse eccessiva, sopra le righe, ma in realtà descrive efficacemente una mutazione che è avvenuta nel profondo della società. A questo si è unita un’incapacità di leggere i cambiamenti, anche istituzionali, imposti dai tempi.
È stato detto che il divorzio di San Valentino segna la fine del potere di veto esercitato dalla Cgil per conto del Pci. Un potere di interdizione che aveva avuto il suo punto massimo negli anni ’70. La rottura con il governo sulla scala mobile innesca un ridimensionamento del potere sindacale, dando inizio alla fase della concertazione, cioè allo scambio del potere contrattuale con l’influenza politica. Ma vorrei sottolineare anche un altro elemento: il risultato del referendum sulla scala mobile con la sconfitta della Cgil mise di fatto i corpi intermedi in un angolo. La politica decide e la base sociale risponde, senza più la mediazione dei corpi intermedi. Ma nel far esplodere il cortocircuito fra politica e società una grande responsabilità ce l’ha proprio chi aveva occupato lo spazio dei cosiddetti corpi intermedi interpretandolo in modo del tutto autoreferenziale. Nel caso specifico del sindacato una progressiva alienazione dalla sua base l’ha chiuso sempre più in una sorta di autoreferenzialità. Oggi invece la politica decide sempre meno e spesso si riduce a essere la cinghia di trasmissione di scelte imposte da altri poteri.
(1- continua)