Roba vecchia, roba nuova, roba così così. Anche se non sembra non siamo a Portobello né al mercato delle pulci, ma a un nuovo capitolo della storia della contrattazione aziendale in Italia. Sono bastate le parole che il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha pronunciato su salario e produttività, sullo scambio che secondo gli imprenditori si dovrebbe realizzare in fase di rinnovo dei contratti nazionali, perché si scatenassero le consuete polemiche tra gli addetti ai lavori, ma soprattutto perché tra le righe si capisse che qualcosa nel clima complessivo che regna sulle relazioni industriali del nostro Paese, qualcosa, dicevamo, parrebbe essere mutato.
Certo la proposta di Boccia, il quale in aperto contrasto con il suo predecessore, ha proclamato a gran voce che lo “scambio salario-produttività è una questione cruciale” e che “la contrattazione aziendale è la sede dove realizzare questo scambio”, non era di quelle fatte per far felici tutti. No, la sua non è stata una proposta irenica. Perché parlare di contrattazione aziendale in casa di chi, come la Cgil, ha sempre ritenuto che questa sia una possibilità certo, ma solo residuale, ha tanto il sapore della provocazione.
Così come l’idea di legare una quota di salario alla produttività.
E infatti le reazioni di Susanna Camusso non si sono fatte attendere: “Roba vecchia, proposte datate”. E non si può dire che abbia proprio torto, questa Olga la leader del sindacato “rosso”: l’una e l’altra sono, infatti, proposte che a chi sta sul territorio, a quei sindacalisti che ogni giorno fanno contrattazione, appaiono quasi banali nella loro dimensione e nei loro contenuti. Cgil, Cisl e Uil in questi anni di crisi hanno, anzi, in più territori e in più occasioni tentato di scambiare addirittura produttività per assunzioni, cioè per posti di lavoro. Figurarsi se non sarebbero felici di poter discutere di quote di salario.
Quale dunque il punto di tensione? Davvero discutere di produttività e di quote di salario legate a essa è una strada ormai impraticabile? Davvero la distanza tra Roma e il territorio, Lombardia in testa, è così profonda? Presumibilmente no. L’esperienza lombarda, infatti, va in un’altra direzione e non è proprio un caso che la Cisl abbia al tavolo della contrattazione e sul tema dei contratti nazionali, una figura esperta come quella del suo ex segretario della Lombardia, Gigi Petteni. Uno che anni fa inventò dal nulla la Fiera della Contrattazione: della contrattazione aziendale, territoriale, locale, provinciale, di settore, di filiera, di ambito.
Perché Petteni, ma più in generale la Cisl, ha in testa la contrattazione su tutto e da fare dappertutto: logico quindi che il sindacato di Annamaria Furlan guardi con interesse alla stagione che potrebbe aprirsi. Un interesse che però sembra disincantato: va bene incrementare la contrattazione aziendale, va bene puntare sul secondo livello, ma senza “sbracare” su quel che già c’è e comunque assicurando a tutti diritti e salari adeguati. Perché agli occhi della Cisl troppa contrattazione aziendale, senza un contrappeso nazionale, potrebbe innescare un meccanismo di garanzia per pochi eletti a sfavore dei tanti, tantissimi, che in Italia lavorano in aziende poco o per nulla sindacalizzate e difficilmente sindacalizzabili.
Chiaro quindi che su un tema de genere, al netto della tattica, delle aperture e delle chiusure che fanno parte del gioco, ci si possa aspettare succose novità: forse, ripetiamo forse, siamo davvero di fronte a una svolta rispetto a meccanismi che ormai risalgono, nella loro sostanza, ai tempi in cui Berta filava e quando si andava in viaggio di nozze a Varese a Milano.
Non pare dunque, a oggi, impraticabile la strada che porta a sviluppare diversi livelli di contrattazione, a legare quote di salario variabile all’andamento di un’azienda, di interventi innovativi in materia di ammortizzatori sociali, di politiche attive per il lavoro: o almeno non pare impraticabile a chi, soprattutto sindacalisti, da anni va sperimentando nuove forme di distribuzione del salario e del reddito.
Negli anni, come si diceva, in moltissime aziende si sono inventate “fantasiose” formule che nascondevano quello che fa il lucro dell’ospedale cambio, e cioè esattamente quello tra l’aumento della produttività e quote di salario. Era una novità nascosta tra le pieghe del contratto. Oggi sembra finalmente una strada praticabile. Forse non è la sola, ma certamente è quella che a oggi ha le maggiori probabilità di risultare vincente, quella sulla quale avviarsi senza troppi ritardi e senza troppe attese. La partita che Boccia ha aperto, inoltre, si inserisce in un contesto generale che già discute di innovazioni contrattuali, di modifiche dei meccanismi di tutela dei lavoratori e di distribuzione della ricchezza prodotta.
Tutto bene dunque? No, perché lo stesso Boccia ha messo le mani avanti e ha dovuto avvertire le sue controparti che “non vogliamo giocare al ribasso” e che “adesso non si può interferire con i rinnovi (contrattuali, ndr) aperti”. Ma anche, ed è stato un avviso al Governo, che serve “una politica di detassazione e decontribuzione strutturali senza tetti di salario e di premio con lo scopo di incentivare i lavoratori e le imprese più virtuosi”.
Più salario per un lavoro più redditizio significa davvero tornare a vecchi meccanismi di controllo e di calcolo della produttività? Il lavoro in fabbrica, anche nelle fabbriche meno innovative, è molto cambiato da quando Charlie Chaplin girava “Tempi moderni”, da quando la catena di montaggio riduceva la gente in condizioni quasi disumane. Cambiata ma non del tutto, perché esistono ancora molti luoghi nei quali la produttività si potrebbe misurare con il numero di pezzi prodotti da ogni addetto: esiste quindi ancora il rischio quindi di tornare ai “cronometristi”, agli addetti al cronometraggio di ogni addetto. Ma la strada di “una più alta produttività per pagare più alti salari” non per forza conduce a un tale rischio.
Sempre però che la partita contrattuale rimanga nelle mani delle parti sociali e non ci pensi invece il Governo a farla sua. Ma forse questo è un pericolo che non alberga più, nella nuova stagione che si sta aprendo.