L’esordio di Vincenzo Boccia, nuovo presidente di Confindustria, all’assemblea annuale tenuta a Roma, è stato all’insegna della continuità rispetto al tranquillo mandato condotto da Giorgio Squinzi. Le fisiologiche manovre pre-elettorali interne che lasciano sempre qualche segno devono essere riassorbite ed è stato consigliabile un ingresso soft senza elementi che possano pregiudicare l’auspicabile unità interna, preziosissima per un periodo non proprio favorevole alle associazioni del lavoro, financo per Confindustria.



Una presentazione senza asperità nei confronti delle istituzioni, com’è pure capitato in altre occasioni, sarà stata consigliata in primo luogo dalla significativa presenza del Presidente della Repubblica che ha, in maniera evidente, volutamente sottolineato la considerazione per i corpi intermedi che di questi tempi non vengono certamente coinvolti volentieri dal Governo sulle problematiche dell’economia e del lavoro.



Gli argomenti non scontati, considerando le posizioni degli ultimi anni della più importante associazione degli imprenditori, sono stati sostanzialmente due: le riforme istituzionali e quella contrattuale. Boccia sul referendum ha dichiarato nettamente il favore per il sì necessario al superamento del bicameralismo; lo ha fatto in verità in modo tranchant, appellandosi all’efficienza e alla modernità. Ha dato comunque l’impressione di voler ricambiare il sostegno ricevuto dal Governo per l’elezione al vertice di Confindustria grazie a influenti grandi aziende a essa aderenti che sono possedute attraverso pacchetti azionari di maggioranza dal ministero dell’Economia. Sulla riforma contrattuale, Boccia ha ripreso le fila di un’impostazione che era sembrata sbiadirsi in questo ultimo biennio negli ambienti di viale Astronomia.



Con enfasi ha precisato che gli aumenti contrattuali – in un’epoca a bassa inflazione – devono provenire esclusivamente dalla produttività, che vede sensibilmente crescere nei maggiori concorrenti europei, mentre noi restiamo al palo. Insomma, ha voluto avvertire i sindacati che sulla linea della maggiore produttività bisogna giocare l’intera partita delle relazioni industriali, mentre al Governo ha chiesto di detassare il salario di produttività senza tetti e senza condizioni. 

Una proposta forte che obbliga il Governo a rispondere delle proprie responsabilità, dato che finora è stato impegnato in affondi sembrati diktat nei confronti delle parti sociali. Anche l’affermazione sulla necessità di non ingerenza del Governo sulle scelte negoziali tra le parti ha avuto il sapore di lanciare un monito a Renzi, ma certamente anche al sindacato a che possa essere ragionevole e rapido nelle decisioni, per non dare alibi di invasione del campo negoziale, che invece dovrà mantenersi autonomo. 

Il nuovo Presidente di Confindustria ha voluto rimettere al centro e solennemente tutta l’impostazione politica che produsse – dal 2009 al 2014 – accordi interconfederali che hanno svoltato le politiche contrattuali degli ultimi tempi. Infatti, si è  riferito a quegli accordi e mettendo le mani avanti, per avvertire i sindacati che non sarà disponibile a tessere una nuova tela che non sia quella riferita agli accordi interconfederali che tutti loro hanno già siglato; accordi che devono ancora sostenere relazioni industriali orientate esclusivamente ad accrescere salari e guadagni d’impresa, frutto di maggiore produttività e competitività. 

Penso che dopo questo limpido posizionamento degli industriali si possa aprire una nuova stagione di protagonismo delle associazioni del lavoro, se le parole e i comportamenti di ciascuno di loro sarà improntata a fedeltà a ciò che nel recente tempo hanno pur affermato e deciso tra mille difficoltà e polemiche, ma che hanno conseguito un risultato di grandi riforme contrattuali auspicate da decenni.

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