Nuovo incontro governo-sindacati per cercare un’intesa sulla riforma delle pensioni. Si terrà il 14 giugno alla presenza dei segretari generali di Uil, Cisl e Cgil, Carmelo Barbagallo, Annamaria Furlan e Susanna Camusso. A rappresentare l’esecutivo ci saranno invece il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini. Governo e parti sociali si erano già incontrati lo scorso 24 maggio, e in quell’occasione avevano deciso di creare due tavoli, uno sulle pensioni e uno sul lavoro. Ne abbiamo parlato con Alberto Brambilla, esperto di pensioni ed ex sottosegretario al Welfare.



Tra le proposte in tema di pensioni di governo e sindacati c’è una distanza notevole. È possibile trovare un punto d’incontro? Intanto è una buona cosa che si faccia questo incontro, perché oggettivamente il tema è così complicato e ha così tante sfaccettature che è bene affrontarlo tutti di comune accordo. Questo non vuole dire tornare ai tempi della concertazione, bensì mettersi insieme per cercare di risolvere il problema. Sulla flessibilità le posizioni sono molto diverse, e nessuna presa singolarmente è in grado di dare tutte le risposte di cui c’è bisogno.



Come si farà quindi a trovare una mediazione? Occorrerà un ventaglio di ipotesi, con un mix tra la proposta Damiano, il prestito bancario e il fondo di solidarietà adottato a suo tempo per bancari e assicuratori. Quest’ultima misura non incide sul bilanci dello Stato, perché è completamente finanziata dalle aziende, e fornisce le risposte di cui avevano bisogno i dipendenti delle banche.

Come funziona il fondo di solidarietà adottato per i bancari? In quest’ultimo settore più di 300mila persone sono state messe nel cosiddetto fondo esuberi con cinque anni di anticipo. Il tutto con una contribuzione pari a circa lo 0,33%, che peraltro è già in corso, prelevata in parte dalla bilateralità, in parte da altri strumenti che riguardano la disoccupazione. Ogni azienda che utilizza il fondo poi ci mette a sua volta delle sue risorse.



Che cosa si può fare invece per i lavoratori precoci? Occorre prevedere un massimo di 40-41 anni di contributi, togliendo tutte le penalizzazioni sulla base dell’età anagrafica. Una persona che ha iniziato a lavorare a 17 o 18 anni, dopo 40 anni di contributi ha diritto ad andare in pensione. Anche perché con grande probabilità i lavoratori precoci non fanno il professore universitario o altre professioni intellettuali, ma magari hanno svolto dei mestieri più duri. Come proposto anche da Cesare Damiano, va eliminato l’aggancio all’aspettativa di vita introdotto dalla riforma Fornero ma bisogna portare al massimo a 40-41 anni il periodo dei contributi.

Le misure che lei propone sarebbero a costo zero per lo Stato?

L’Ape, il fondo esuberi e il part-time in uscita, anche sotto forma di anticipo verticale in uscita, nel contesto complessivo non hanno costi. L’unica misura che ha dei costi iniziali, che poi vengono assorbiti nel corso dei 20 anni, è la proposta di flessibilità in uscita di Damiano. È quest’ultima che andrà fatta digerire all’Ue.

 

In che senso i costi sono assorbiti nell’arco di 20 anni?

Nei 20 anni di fruizione della prestazione il costo dello Stato è pari a zero, se non addirittura con qualche piccolo vantaggio. Se una persona anticipa l’uscita di tre anni, perde i primi tre anni di contribuzione e paga per tre anni di anticipo. Da parte dello Stato c’è quindi un esborso iniziale, anche se con una pensione ridotta, che poi si riassorbe nel corso dei 20 anni successivi.

 

Quindi la proposta Damiano non presenta problemi?

In realtà bisogna tenere conto anche dell’altra parte del problema, che è il rapporto pensionati-occupati. Noi oggi abbiamo 1,33 occupati per ogni pensionato, e ci troviamo ormai in una “zona rossa” di massima insicurezza. Non dimentichiamoci che quello italiano è un sistema a ripartizione, cioè che paga le persone sulla base del numero dei contribuenti. Non può essere un fatto generalizzato, perché se abbassassimo l’età dei lavoratori con un’uscita anticipata il rapporto attivi-pensionati scenderebbe al di sotto dell’1,33%.

 

(Pietro Vernizzi)