Pensavo che il primo dei quattro incontri di giugno, organizzati dal Censis sui giovani di oggi (nel quadro della serie “Un mese di sociale”, dedicato quest’anno al tema “Ritrovare la via dello sviluppo secondo il modello italiano”), attirasse un maggiore dibattito, con analisi e proposte adeguate, e non di semplice routine. Invece, dopo un lancio veloce che ha coperto lo spazio di un mattino, è calato il silenzio.
Chi sono, in poche parole, i giovani di oggi, cosa pensano, in base a cosa e a chi fanno le loro scelte? Già in passato il Censis aveva parlato di “capitale inagito”. Per dire di un “capitale”, quello giovanile in particolare, che non viene valorizzato in termini di numeri, potenzialità, risorse. Un “capitale” lasciato lì. Altro che “risorse umane” o il refrain della “cultura come fattore di sviluppo”!
Che i nostri giovani siano più preparati della generazione passata, anche più aperti ai vari contesti “glocali”, è cosa nota. Non solo per una certa velocità di pratica con le nuove tecnologie. Ma soprattutto per una naturale, scontata disponibilità a prendere in considerazione i nuovi scenari del dopo-crisi. Eppure non sono valorizzati, se prendiamo in considerazione i gangli vitali della nostra società ai vari livelli: sono la metà (sotto i 34 anni) dei tre milioni che si ritrovano disoccupati, oltre al milione e mezzo di scoraggiati, e quindi “inattivi”.
E quelli che lavorano, sempre sotto i 34 anni? Dei 4,7 milioni, un milione circa è povero, nel senso che fatica ad arrivare a fine mese, mentre gli altri hanno comunque bisogno dell’aiuto dei genitori e dei nonni, vera cassaforte sociale. Una vita a “intermittenza”, sempre per riprendere il linguaggio in uso oggi.
Una delle conseguenze riguarda le iscrizioni all’università: sono diminuite in due anni del 7%, mentre le immatricolazioni sono scese del 13%. Senza dimenticare il crollo delle nascite, 62.000 in meno negli ultimi 5 anni. Allora è vero che i nostri giovani sono, sempre col linguaggio del Censis, una “risorsa frustrata” del nostro sistema-Paese. Se i diplomati e i disoccupati hanno la meglio, quando cercano un lavoro, poi, nel 40% dei casi, si trovano a svolgere una mansione che prevede un percorso formativo meno articolato e specializzato di quello seguito a scuola e all’università. Che è come dire: i titoli di studio servono per affacciarsi a un lavoro, ma non per accedere a una particolare tipologia di lavoro. Cioè, un lavoro purchessia.
La percentuale di occupazione dei laureati, della fascia 30-34 anni, è scesa dal 79,5% del 2005 al 73,7% del 2015. In dieci anni, cioè, un titolo di studio ha conservato un notevole appeal, ma la crisi si è riversata sulla tipologia di titolo di studio. Nel senso che non basta un titolo qualsiasi, per affacciarsi al mondo del lavoro, ma uno che corrisponda alle caratteristiche richieste. Per questo motivo, è fondamentale l’orientamento scolastico e universitario.
Ma torniamo ai dati forniti dal Censis. I titolari di impresa con meno di 30 anni, operanti nel nostro Paese, sono 192.000, cioè il 14,8% in meno rispetto al 2010. Di questi, solo il 5% circa lavora nei settori considerati più innovativi della manifattura e dei servizi, il 35,3% nel commercio al dettaglio e all’ingrosso (+7,6% rispetto al 2010) e il 10,3% nelle produzioni e nell’agroalimentare. La flessione si ritrova anche nel numero delle nuove partita Iva, sapendo comunque che il 46% di queste è espressione dei giovani sotto i 35 anni: abbiamo un -2,7% rispetto al 2015, dopo un -10,7% del 2015 sul 2014.
Che fare, dunque, di fronte a questi riscontri? Come, in altri termini, infondere speranza alle nuove generazioni di un futuro possibile? Eppure, alcuni segnali sono incoraggianti. Ho in mente, al di là delle statistiche, mille esperienze dirette. Le quali ci dicono che i nostri giovani non sono “bamboccioni”, “choosy” o altro. Sono sempre più quelli che sono disposti a prendersi in mano la propria vita, a costruirsi il proprio futuro. Anche lontano da casa. Nonostante un sistema-Paese che è incapace di offrire vere opportunità e sostenere chi vuole mettersi in gioco.
Se diamo un’occhiata al recente “Rapporto Giovani”, cioè all’indagine nazionale promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo, in collaborazione con l’Università Cattolica, che mette a confronto la situazione italiana con i più grandi Paesi europei, emerge che i giovani italiani sono quelli che vedono con maggior preoccupazione la situazione del proprio Paese, “con opportunità peggiori rispetto al resto del mondo sviluppato”. La pensa così il 75% dei giovani intervistati. La loro risposta è “l’adattamento al ribasso”, in attesa di nuove e migliori opportunità, compresa l’inevitabilità di “rimboccarsi le maniche” e di diventare “imprenditori di se stessi”. Ben l’88% si è dichiarato disponibile a emigrare, all’interno dell’Italia e all’estero.
Queste scelte non sono legate, secondo gli intervistati, al titolo di studio o allo stato occupazionale. Per i giovani italiani i Paesi con maggiore attrattiva sono gli Usa con il 17,5%, il Regno Unito con il 14%, la Germania con il 12,2%, la Francia con il 3,5% e infine la Spagna con l’1,5%. “I giovani italiani”, ha riassunto Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo, “non sono una generazione ‘senza futuro’, una generazione ‘perduta’. Sembrano piuttosto una ‘generazione smarrita’ nel senso di chi sta cercando la propria strada e fa fatica a trovarla nel nostro Paese”.
Una generazione “smarrita”, che rischia di trasformarsi in una generazione “dispersa”, non solo in termini geografici, ma motivazionali. “Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione – conclude Rosina – quello che pesa è il non sentirsi inseriti in processi di crescita, di essere inclusi in un percorso che nel tempo consenta di dimostrare quanto si vale e di veder riconosciuto pienamente il proprio impegno e il proprio valore. L’Italia attuale presenta, nella percezione dei giovani, la combinazione peggiore in Europa tra condizioni attuali e aspettative verso il futuro. Mettere i giovani nelle condizioni di immaginare un futuro diverso con opportunità concrete di realizzazione è la principale operazione che il sistema-Paese deve fare se non vuole perdere un’intera generazione”.