La stretta sugli assenteisti era certamente opportuna (specie mentre è aperta una campagna elettorale molto lunga fino a ottobre) e, quindi, non può che apprezzarsi l’approvazione definitiva del decreto legislativo sui licenziamenti per i “furbetti del cartellino”. È importante che lo Stato dia un segnale evidente di lotta e contrasto a un malcostume intollerabile, che rivela assenza totale di senso del dovere e delle istituzioni. Si tratta di comportamenti che ledono gravemente il rapporto di fiducia tra i dipendenti della Pubblica amministrazione, pagati con le tasse dei cittadini, e i cittadini stessi.
Se, comunque, in linea generale il segnale, soprattutto sul piano politico e morale, è da apprezzare e da condividere, il testo definitivo del decreto legislativo sui licenziamenti degli assenteisti rimane affetto da problemi di carattere tecnico, tali da far sorgere non pochi dubbi sulla sua concreta efficacia. Il decreto spinge a una vera e propria corsa contro il tempo, poiché stabilisce che si deve giungere al licenziamento entro 30 giorni dalla ricezione da parte del dipendente incolpato della “contestazione” disciplinare, da effettuare contestualmente al provvedimento di sospensione cautelare, a sua volta da adottare entro 48 ore dalla conoscenza del fatto.
Dei 30 giorni disponibili, tuttavia, almeno 15 se ne consumano come termine di preavviso per l’udienza necessaria per garantire il contraddittorio e le difese; preavviso che può prolungarsi di altri 5 giorni in caso di motivato impedimento dell’incolpato. All’ufficio per i procedimenti disciplinari, quindi, restano 15 giorni per poter completare l’istruttoria senza vizi di merito e procedurali e disporre il licenziamento entro i 30 giorni previsti.
In cosa consiste, allora il problema? Non è un bene che la legge imponga di licenziare presto i dipendenti infedeli? In astratto si è portati a rispondere di sì, ma i fatti concreti dicono altro. Come dimostrano i fatti di cronaca, l’attestazione falsa della presenza in servizio non è mai di un unico dipendente, bensì il frutto di un sistema organizzato, del quale fanno parte molti dipendenti, talora centinaia come nel caso eclatante di Sanremo. Allora, è chiaro che i 15 giorni a malapena garantiti all’ufficio dei procedimenti disciplinari divengono da pochi a irrisori, se in questo lasso di tempo occorre definire le istruttorie di decine e decine di casi. Se la nuova regola fosse stata vigente, nel caso del comune di Sanremo ben difficilmente si sarebbe giunti ai circa 40 licenziamenti disposti.
Ridurre da 120 giorni a 30 la durata del procedimento disciplinare fa certamente effetto mediatico, ma rischia di essere velleitario, nonostante si agisca su fatti colti in flagrante. Ma non basta. In realtà, il decreto finisce per considerare tutti i termini, da quello della sospensione cautelare a quello di conclusione del procedimento, come non perentori, ma solo come ordinatori e, quindi, violabili. Questo potrebbe generare un contenzioso enorme davanti ai giudici del lavoro: di fatto, in questo modo, per un verso si ammette (senza dirlo) che i 30 giorni sono pochi, tanto che si consente di andare oltre; per altro verso, incide enormemente sul diritto alla difesa, perché l’incolpato non può sapere mai concretamente quando il procedimento debba concludersi.
In sede di ricorso al giudice del lavoro potrebbero essere sollevati tantissimi vizi procedurali, volti a evidenziare l’illecita limitazione del diritto alla difesa, per ottenere l’annullamento del licenziamento. Che, ricordiamolo, dopo la sentenza un po’ paradossale della Cassazione del 9 giugno scorso, comporterebbe la reintegrazione del dipendente assenteista.
Inoltre, la limitazione del diritto alla difesa insita nella non vincolatività dei termini procedimentali presenta rischi di incostituzionalità. Altrettanto vale per la responsabilità sostanzialmente oggettiva posta a carico dei dirigenti e responsabili degli uffici dei procedimenti disciplinari che non avviino le iniziative contro gli assenteisti. Il decreto, nel testo finale, ha espunto la qualificazione di ciò come reato di omissione d’atti d’ufficio, stabilendo, in cambio, l’obbligo di segnalare le omissioni ala Procura della Repubblica, accogliendo così alcune osservazioni del Consiglio di stato e delle Camere. Tra tali osservazioni è stata anche accolta quella di assicurare agli incolpati, nel periodo di sospensione cautelare, l’assegno alimentare, un trattamento economico di poco inferiore al 50% dello stipendio fondamentale.
I fatti diranno se la riforma avrà un effetto deterrente o comunque la capacità di produrre davvero licenziamenti definitivi, sperando, ovviamente, che casi di assenteismo non si presentino più.