Si aspettava un temporale ed è arrivato un vero e proprio tifone che ha spazzato via, mandato all’aria, più del 50% dei capisaldi del Pd renziano negli enti locali interessati al rinnovo dei sindaci e dei consigli comunali. Significativo che nella Capitale, addirittura, due persone su tre abbiano votato i pentastellati e solo il 50% degli elettori abbia depositato la scheda nell’urna. Cosicché il Consiglio dell’Urbe di fatto si ritroverà un governo monocolore, un vero inedito nella storia della Roma repubblicana. 



Un avvertimento eclatante dell’elettorato verso chi governa il centro e la periferia, dopo le tante aspettative suscitate dall’esecutivo sull’economia, sui nodi sociali, sul debito dello Stato e sulla spesa pubblica. Naturalmente c’è da pensare che giunti a questo punto la parabola discendente di Renzi stia volgendo già verso la sua fisiologica conclusione. La dinamica è sempre la stessa e si ripete spesso da circa un ventennio. Nella prima fase il leader di turno annuncia che farà ciò che i cittadini vogliono sentirsi dire, poi successivamente, nella difficoltà di attuare le promesse, lo stesso ex leader viene soffocato dal peso degli stessi annunci disattesi.  



In una democrazia senza cittadini organizzati nei partiti, i leader sono al massimo sostenuti dai poteri mediatici e dalla rete degli assessori dei territori. Va da sé che in una dinamica di potere così ordinata non si potrà mai disporre di quella autonomia necessaria per condurre politiche opportune e coraggiose, che nella prima fase della loro gestazione potranno risultare impopolari.

Anche Renzi ha seguito questo itinerario, magari interpretando il suo ruolo con quei limiti ma anche con un’impronta più marcata, più enfatizzata, più attagliata naturalmente alla sua caratteristica di persona molto libera da schemi preconfezionati. Ha annunciato rivoluzioni nella scuola fondate sul pregiudizio dei cittadini sui pubblici impiegati e facendo infuriare il milione di addetti con la cosiddetta “buona scuola”. E a nulla gli sono valsi i 500 euro assegnati agli insegnati per un non precisato programma di sostegni su attrezzature didattiche di cui dotarsi.



Sono stati annunciati 80 euro a lavoratori, pensionati, militari e altri, e la delusione della mancata erogazione è stata cocente per milioni di queste platee che addirittura si sono ritrovati a pagare più tasse di prima. Anche per quei lavoratori dipendenti che in un primo momento sembravano essere stati privilegiati. 

Renzi ha promesso di sottoscrivere il contratto del pubblico impiego dopo circa otto anni di vacatio e solo forse ora, dopo una sentenza della Corte costituzionale, si intravede lo spiraglio di una trattativa per la quale sono comunque stanziati pochi fondi. Ha dato più volte la sensazione di sostenere le grandi banche a scapito delle piccole banche popolari e cooperative, danneggiando la stabilità del posto di lavoro di chi ci lavora. Insomma, di essere sensibile al potere bancario-finanziario ma non verso lavoratori e cittadini-clienti. 

Se poi si considera che il Pd, almeno nell’immaginario collettivo, è stato ritenuto tradizionalmente vicino agli interessi dei lavoratori dipendenti si capisce il perché una buona fetta del proprio insediamento è venuto meno per esso nel voto del 19 giugno. 

Le sconfitte, insomma, non arrivano mai per caso. E questa di Renzi e del Pd neanche. Il problema ora è: che fare? È un problema enorme per Renzi perché richiederebbe un approccio fondato innanzitutto sull’umiltà. Ma è una dote che almeno fino a oggi il Presidente del Consiglio ha dimostrato di non possedere neanche lontanamente.