Da una prima analisi dei dati forniti recentemente dall’Isfol sul programma Garanzia Giovani è possibile formulare alcune considerazioni. Innanzitutto il rapporto tra la platea potenziale e i giovani che effettivamente hanno aderito al programma è pari al 57%. Se approfondiamo ulteriormente e analizziamo lo step successivo, ovvero quello dell’effettiva presa in carico, arriviamo al 73,7% dei registrati, poco più del 35% della platea di riferimento complessiva. Ma coloro effettivamente avviati a un intervento di politica attiva rappresentano il 42% dei soggetti “presi in carico”. I giovani sono stati tutto sommato attivati, almeno coloro che hanno aderito al programma. Inoltre, emerge che i giovani che hanno portato a termine il percorso hanno effettivamente beneficiato di un’opportunità in più.
Siamo al giro di boa di Garanzia giovani, quindi può essere utile favorire delle considerazioni di più ampio respiro che vadano un pochino oltre i numeri, perché i dati sono sì esplicativi, ma non di certo totalmente esaustivi della complessità della realtà. Innanzitutto è opportuno chiedersi, cosa è veramente una “garanzia” oggi per i giovani?
Come prima cosa è necessario avere chiaro lo scopo. Ritengo assolutamente prioritario che i programmi come Garanzia Giovani non siano semplicemente finalizzati a incrementare l’occupazione, ma abbiamo come mission quella di incrementare l’occupabilità dei giovani che vi aderiscono. Innanzitutto perché, nella più realistica delle ipotesi, il percorso lavorativo di un giovane che si appresta a entrare nel mondo del lavoro in questi anni non avrà la forma di una linea retta costantemente in crescita, ma nel migliore dei casi sarà una sinusoide ascensionale, un percorso fatto anche di fallimenti, imprevisti dovuti al semplice evolversi delle circostanze: dall’azienda che chiude, all’arrivo di un nuovo responsabile di area che ha una vision diversa dell’impresa e quindi anche del ruolo dei propri collaboratori, fino al senso di inutilità che molti giovani soprattutto neolaureati vivono, in quanto non sempre è chiaro il rapporto tra il particolare che gli è stato affidato e la complessità della mission aziendale (ma in taluni casi “semplicemente” perché non ci sono più maestri nei luoghi di lavoro, ma semplici superiori o colleghi).
Quindi, in un percorso lavorativo così articolato, non lineare ma fatto di cadute e ripartenze, non è possibile considerare come “successo” un contratto di 6 mesi. O meglio, può essere un enorme risultato se concepito non come il semplice esito di un programma di ricollocazione, ma come una tappa del percorso più ampio che è da considerarsi in tutta la vita lavorativa. Per questo diventa fondamentale non solo lavorare sull’occupazione, ma principalmente sull’occupabilità, perché nel mondo del lavoro del 2016 la fase di assenza del lavoro non è un evento accidentale nelle carriere professionali: è molto più presente che in passato e si manifesta in una modalità meno drastica ma più strutturale.
Abbiamo bisogno di costruire una rete di servizi per l’impiego che sia innanzitutto radicata sul territorio, ma con una visione globale, capace quindi da un lato di conoscere le peculiarità locali del mercato del lavoro, ma allo stesso tempo in grado di fornire un orientamento in grado di facilitare le scelte formative e professionali dei giovani.
Restano altri due aspetti sui quali lavorare. Innanzitutto la formazione continua. Il modo concreto più facilmente sperimentabile del concetto di occupabilità è data dall’incentivare e favorire l’aggiornamento permanente delle proprie professionalità, in modo da mantenerle sempre spendibili, non obsolete, ma che siano sempre un valore aggiunto per l’impresa. Per generare questo occorre un patto implicito, tra le giovani generazioni e il sistema dei servizi al lavoro: i giovani devono essere disponibili a dare credito a quanto viene affermato, dall’importanza della formazione al prevalere del concetto di occupabilità, fino alla comprensione di dinamiche professionale non per forza lineari; i giovani devono fidarsi che un percorso di accompagnamento è necessario oggi più che mai, non solo nella fase di non lavoro, bensì in tutta la carriera occupazionale.
È necessario che anche l’utilizzo dei canali informali per la ricerca del lavoro venga ricondotto in una valorizzazione più complessiva della professionalità, non come un episodio isolato, ma all’interno di dinamiche relazionali e sociali da valorizzare e approfondire. Dall’altro lato, i servizi accreditati devono fare un salto di qualità. Occorre debellare i “corsifici professionali” che sopravvivono solo grazie a qualche finanziamento residuo a buon mercato ma non generano nessun valore aggiunto; oppure alcuni soggetti di intermediazione che non svolgono un “lavoro” di consolidamento delle competenze per il giovane, ma gli servono semplicemente la prima occasione buona per monetizzare il successo occupazionale. Per l’amor di Dio, meglio che niente. Ma questo vorrebbe dire venir meno a quel patto tanto necessario.