“Se non riusciamo a elevare la produttività ci giochiamo un pezzo dell’industria italiana: questa volta non è una questione tra le parti ma delle parti, che riguarda il futuro del Paese. Tutti – imprese e sindacati – dobbiamo sentirci sulle spalle questa responsabilità”: sante parole, quelle di Vincenzo Boccia, neo-presidente della Confindustria, ribadite all’assemblea degli industriali di Firenze, casa del presidente del consiglio Matteo Renzi, che le condivide al 100%.



In concreto, quest’obiettivo si traduce – nella visione degli industriali – in un forte ridimensionamento del ruolo del contratto nazionale a vantaggio dei contratti aziendali. Sarebbero questi ultimi il luogo dove andrebbero definite le regole dell’auspicato scambio tra maggiore produttività e “parte variabile della retribuzione”, ovvero i premi sui risultati, invalsi peraltro da sempre nella prassi delle aziende più dinamiche, comprese quelle dello stesso Boccia e del suo predecessore al vertice degli industriali, Giorgio Squinzi.



Questa maggiore produttività transita per la flessibilità piena delle modalità lavorative delle aziende. Si lavora tanto se non tantissimo quando ci sono ordini; si sta più a casa quando ce ne sono meno, per esempio. Si liberalizzano orario straordinario, lavoro notturno e lavoro festivo; si perfezionano, accentuandole, le nuove regole elastiche del Jobs Act. Insomma, si chiede ai lavoratori dipendenti di adottare, nei confronti del loro impiego, lo stesso atteggiamento disponibile che distingue i lavoratori autonomi. In cambio, gli si dà più soldi quando vanno bene le cose. E quando vanno male? 



Questo è il punto. Che succede se le cose vanno male? Se gli ordini scarseggiano perché c’è crisi? Perché in azienda chi dovrebbe non riesce a innovare i prodotti? Perché la concorrenza dei paesi low cost immette sul mercato prodotti a prezzi stracciati? Dove va a finire la maggiore produttività ottenuta grazie al nuovo modello contrattuale per il 90% aziendale e solo per il 10% nazionale? Su questi interrogativi non c’è ancora chiarezza. Non si capisce bene cosa resterebbe a fare il contratto nazionale: quali garanzie continuerebbe a prestare ai lavoratori, quali diritti continuerebbe a presidiare contro le tante evenienze in cui è l’impresa o l’imprenditore ad essere in difetto, e non chi ci lavora.

Il costo del lavoro, peraltro, nell’industria manifatturiera italiana, incide in realtà piuttosto poco sui costi complessivi. Prendiamo il caso dell’industria dell’auto, ad esempio, che in Italia dà ancora lavoro a ben 1,2 milioni di persone (nell’intera “filiera”). Ebbene, in questo settore il costo del lavoro incide per appena il 7% sul fatturato. Anche a volerlo ridurre del 20%, grazie alla tanto invocata produttività, si otterrebbe un risparmio dell’1,4% sui prezzi dei prodotti ovvero, a parità di prezzi, si avrebbe un incremento di pari dimensioni sul margine industriale. Poca roba.

Ma è purtroppo per questo magro obiettivo che sembrano schierati a coorte i nostri industriali. Il che sinceramente appare non solo minimalista ma anche, e in fondo, retrogrado, visto che ben altre prospettive schiude – ahimè – il paradigma della Industry 4.0, cioè di quell’insieme di innovazioni del processo produttivo legato all’avvento nelle fabbriche dell’Internet delle cose (il famoso Iot). 

Di che si tratta si sa: aggiungendo molta elettronica all’attuale già avanzata robotizzazione della manifattura, e connettendo in rete i calcolatori elettronici che fanno funzionare i robot con una miriade di sensori che monitorizzano continuamente ogni più piccola fase del processo produttivo automatico, si elimina alla radice la necessità stessa dell’intervento umano, si compie il paradossale miracolo di prescindere del tutto dalla manodopera, con risparmi ben più consistenti di quelli conseguibili agendo con gli strumenti tradizionali della produttività di modello anglosassone.

È solo questo genere di innovazioni, per capirci, che spiega il diffuso fenomeno del reshoring, cioè del reimpatrio nei Paesi occidentali (quelli ad alto costo del lavoro) di tante attività manifatturiere che negli ultimi trent’anni sono state “delocalizzate” in quelli emergenti: dall’Est Europa alla Cina al Vietnam. Chiudere laggiù e riportare macchinari e capannoni in patria – sta accadendo persino in Italia! – oggi è possibile e conveniente perché ai costosi operai si sostituiscono ubbidienti ed economicissimi robot, che sono produttivi per definizione: quando non servono, premi “off” e quelli si fermano, non chiedono salario e pause-pranzo e non occorre mandarli in cassa integrazione.

Altro che contratti nazionali e aziendali, è questo il vero scenario della competizione industriale sui costi e sulla produttività che sta schiudendosi per tutta l’industria avanzata. Per questo, la battaglia sulla produttività come la sta impostando Confindustria appare a molti un po’ anacronistica. Per eccesso di pretese, visto che a fronte delle concessioni alle esigenze dell’impresa chieste agli operai non si concede loro altro che un ritocco delle premialità salariali legate ai risultati, senza però coinvolgerli, come avviene ad esempio da decenni in Germania, nei consigli d’amministrazione attraverso i loro sindacati; e anche per difetto di visione, perché anche il più flessibile degli operai sarà pur sempre più costoso di un robot, nell’era dell’Iot.

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