Alla domanda di rito alla fine del colloquio degli esami di maturità, sulla scelta futura, università o mondo del lavoro, ho incontrato, rispetto al passato, risposte più incerte dai ragazzi, cariche di dubbio. E anche nell’altra domanda, di supporto, sul “sogno nel cassetto” ho visto in alcuni casi luccicare gli occhi, quasi a dire che tra i sogni e la realtà il solco sembra invalicabile.
Dati e statistiche li conosciamo tutti, sull’occupabilità dei titoli di studio, sulla disoccupazione in rapporto all’età, su quelli che non studiano e non lavorano, su quelli che scelgono l’estero, cioè sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”. Statistiche che ci inseguono ogni giorno. Ma le stesse non ci dicono come stanno realmente le cose. C’è, in poche parole, se la vogliamo dire tutta, una vera e propria “garanzia”, quasi una patente di legittimità, e poi di realtà, intorno alla domanda di futuro possibile?
Facciamo presto a dire: “la formazione”, una formazione che sia aperta, continua, capace di adattarsi a complessità inedite, dato il contesto glocale. Perché poi, lo sappiamo, le contraddizioni in troppi casi riescono a imporsi, a ridimensionare sogni, attese, speranze, talenti, attitudini. Forse perché, ce lo dobbiamo dire, l’Italia non è un Paese per giovani. Non lo è nella politica, non lo è nella Pubblica amministrazione, non lo è nella gestione delle imprese, non lo è nella scuola e nelle università. A parte, ovviamente, alcune belle eccezioni.
Se tutti siamo d’accordo su alcune dichiarazioni di principio, cioè sulla valorizzazione del merito e del talento delle giovani generazioni, in realtà ci troviamo di fronte a muri di gomma costruiti intorno a veri e propri fortini corporativi, della cui responsabilità non sono immuni organizzazioni di categoria e mondi sindacali. Preoccupati, al dunque, di difendere solitamente i già difesi, più che di promuovere, secondo il principio di responsabilità, i talenti, la disponibilità a mettersi in gioco, il valore aggiunto dello studio, della creatività, della fatica quotidiana.
Se dunque, a parole, sappiamo tutti bene che il rilancio del nostro “sistema Paese” passa solo attraverso le eccellenze in tutti i campi (conoscitive, etiche, esistenziali), nella realtà ordinaria sappiamo invece che valgono gli “amici degli amici” e la logica dei gruppi chiusi. Mentre è il merito, pensato e vissuto però non in termini individualistici, a rappresentare il nodo cruciale per lo sviluppo di ogni convivenza pacifica, la prima forma dunque di giustizia sociale.
Questo non significa, ovviamente, rimanere indifferenti a possibili nuove marginalità, ma, più nel concreto, mettere ognuno di fronte alle proprie responsabilità, garantendo, nel contempo, adeguati ammortizzatori sociali per le situazioni di criticità. Ma il merito, da solo, non basta. Ci vuole un contesto di reale concorrenza, cioè la sana competitività tra diverse offerte di servizio in modo da garantire la democrazia come “scelta del meglio” e, nello stesso tempo, trasparente modalità di attribuzione di una responsabilità, con valutazione in itinere.
Senza merito e senza concorrenza, è ovvio che i giovani si trovino fuori gioco. Quasi a dire che i “grandi”, rispetto al futuro dei propri figli, pensano solo a gestire il proprio piccolo cabotaggio, senza badare a quello che succederà un domani. È l’esatto contrario, invece, dei nostri padri: hanno risparmiato nonostante la (quasi) povertà pur di garantire ai propri figli un avvenire migliore, mentre oggi ci disinteressiamo del futuro dei nostri figli. I quali, da soli, fanno fatica ad alzare lo sguardo, vincolati alla moda dominante di un “carpe diem” male inteso, quasi un “vivere alla giornata”, senza pensare che il futuro inizia adesso, attraverso anche i piccoli risparmi quotidiani.
Ma perché un Paese, in un contesto “glo-cale” (globale e locale), possa rialzare la testa, cioè le opportunità di sviluppo e di qualità della vita, c’è bisogno di riforme reali: da una nuova Pubblica amministrazione, a scuole e università finalmente libere dalle solite autoreferenze, da realtà sociali non chiuse a riccio in modo corporativo, a mondi sindacali liberi finalmente dalle tentazioni politiche. Ma ha bisogno di ben altro: regole del gioco da “società aperta”, compresa la non commistione del mondo dei giornali e della Tv con gruppi di riferimento politici e/o finanziari (gli unici proprietari dei giornali, cioè, devono essere solo i lettori…).
Preoccupa, a tal fine, tanto per intenderci, “l’Indice delle liberalizzazioni”: se ipotizziamo come 100 il livello di “società aperta” di un virtuoso Paese europeo, vediamo che la situazione italiana è davvero preoccupante: siamo da Terzo Mondo per gestione dei servizi idrici (32), per telecomunicazioni (39), mentre il mercato elettrico (77) si è di recente aperto alla concorrenza e alla ricerca della migliore offerta. Ma sul trasporto pubblico locale siamo fermi a quota 43, mentre sulla Pubblica amministrazione siamo fermi ancora a quota 40. È chiaro qui il ruolo di freno mentale e corporativo delle varie lobbies: evidente il significato di freno corporativo, più difficile da capire cosa voglia dire “freno mentale”, cioè il timore del confronto (la paura di mettersi in gioco), cioè della critica e dell’autocritica per il miglioramento continuo.
Normativamente, il vero salto in avanti passa attraverso il ripensamento dello Statuto dei lavoratori, il quale deve diventare “Statuto dei Lavori”, secondo proposte che da anni restano al centro però solo di dibattiti formali (da Treu e Biagi a Ichino a Tiraboschi).
Per farmi capire, faccio l’esempio che mi è più spontaneo, dati gli esami di maturità appena conclusi: perché una valutazione abbia davvero senso, prima di uno scrutinio o di un esame, noi dobbiamo assicurare agli stessi studenti e alle famiglie la migliore scuola possibile, studenti e famiglie hanno cioè il sacrosanto diritto ad avere i migliori docenti, i migliori presidi, i migliori servizi e strutture. Cose a oggi, in molti casi, difficili solo da proporre (all’interno di una scuola è il collegio dei docenti che può giudicare i docenti: un chiaro conflitto di interessi!). E sappiamo bene, oltremodo, che la qualità dipende, prima che dalle strutture o dai codici formali, dalle persone che sono chiamate a incarnare questa qualità reale.
E qui siamo al paradosso: chi per mestiere insegna e valuta fa fatica, a sua volta, ad accettare di venire valutato. Non parlo in generale, ma di una buona maggioranza, come hanno dimostrato anche alcune recenti indagini. È uno dei paradossi della vita odierna: tutti difendono a parole la meritocrazia, ma ognuno poi ne ha paura quando la si applica, perché teme la competizione, odia il cambiamento continuo, ama aggrapparsi alle poche certezze maturate. Eppure il merito conviene a tutti, a medio e lungo termine: è piacevole sapere che il medico che ci cura è bravo, che l’insegnante dei propri figli è preparato, che il sindaco è persona perbene e saggia con tutti (al di là delle appartenenze partitiche), che il magistrato, in sede civile o penale, adotta sentenze veloci, eque e rispettose della verità, ecc. Tutte questioni etiche prima che politiche o economiche o giuridiche o sindacali.
Manca, ce lo possiamo dire, la percezione del valore positivo della “reciprocità”, altro modo per dire responsabilità. Il merito e la messa in concorrenza delle diverse competenze convengono dunque a tutti, non di certo la logica clientelare degli “amici degli amici”: alla lunga questa logica non conviene a nessuno. Eppure sappiamo che è da questi aspetti che dipendono la creatività, il talento, la disponibilità di appassionarsi, di farsi carico dei problemi di tutti (il vecchio “bene comune”) che solo le giovani generazioni, meglio forse di noi “adulti”, possono mettere in campo. Per il nostro presente e per il loro futuro. I migliori antidoti al rischio della precarietà a vita, della mobilità e della flessibilità nel mondo del lavoro passano attraverso questi punti chiari. Rendersene conto è già una conquista, ma non basta.