Per gli osservatori più attenti, è quasi banale ricordare quanto l’esecutivo di Matteo Renzi abbia iniziato il suo mandato con un atteggiamento molto deciso e quasi ostile – stando a sentire alcuni dei diretti protagonisti – nei confronti delle Parti sociali, in particolare del sindacato; tant’è che si è rimproverato al governo di aver confezionato la riforma del lavoro, il Jobs Act, in modo totalmente indipendente dalle Parti, cosa comunque non vera perché le stesse sono state singolarmente incontrate e ascoltate rispetto a un impianto che poi qualcuno, vedi Cisl, ha finito con l’apprezzare.
A oggi, possiamo dire che questa iniziale tensione ha portato un po’ di ordine e che certamente pare aver messo fine ai troppi strappi e ai girotondi televisivi a cui, per la verità, prendevano parte sempre i soliti noti. Se ripercorriamo la storia dell’ultimo ventennio, dalla legge Treu – iniziale momento di un percorso di riforma che rompe il blocco di marmo della disciplina del lavoro italiana – al Jobs Act, possiamo identificare alcuni passaggi come cruciali e vedere chiaramente come il movimento sindacale sia cambiato in funzione di scelte diverse dei suoi attori.
Uno snodo decisivo si ha nel 2001, quando la filiera sociale, tranne la Cgil, accetta di recepire la direttiva europea sulla riforma del contratto a tempo determinato. Da quel momento, inizia l’isolamento della Cgil che fino ad allora aveva esercitato una forte egemonia politica e sociale. Si passa poi per la legge Biagi del 2003, contestatissima dalla stessa Cgil e dallo stesso Pd, che però nel governo 2006-2008 a guida Prodi interviene con due (2!) emendamenti dopo una lunga campagna demolitoria dell’impianto di riforma.
Si arriva poi al 2009, in cui si firma il primo accordo interconfederale senza la Cgil, intesa che riporta in modo deciso la contrattazione a misurarsi con la produttività aziendale. Il caso Fiat (2010) nasce su queste premesse, ma ancora una volta la Cgil – più per responsabilità della sua categoria dei metalmeccanici, oggi riconosciute dallo stesso Maurizio Landini – è fuori da uno degli snodi decisivi. Ciò che ne segue, in particolare l’intesa 2011 ma anche quella del 2013 e il Testo Unico sulla Rappresentanza del 2014, è il modo per ricomporre questa frattura.
Quel che si evince da questa breve ricostruzione storica, oltre all’isolamento della Cgil, è il ruolo propositivo giocato dalla Cisl, che sulla riforma Biagi scommette molto (tanto da meritarsi anche qualche bomba come a Milano), sull’accordo del 2009 riesce ad affermare la storica visione cislina (salario legato alla produttività aziendale e non variabile indipendente) ed è protagonista del caso Fiat, grazie al quale in Italia sono risorte la più importante azienda italiana e un’industria intera di oltre 500.000 lavoratori, considerato tutto l’indotto del settore auto.
Oggi il tema della produttività aziendale non è più solo questione di visione e di filosofia sindacale, è esigenza reale visto come il nostro sistema produttivo esce malconcio da questi anni durissimi. Ecco perché oggi la Cisl ha una grossa occasione per far capire all’Italia qual è il ruolo del sindacato e a cosa serve la contrattazione. In questo senso, il documento unitario di Cgil, Cisl e Uil di dicembre 2015 ha destato qualche perplessità, perché – come qualcuno anche in casa Cisl ha fatto notare – la distinzione e il rapporto tra i due livelli di contrattazione non è così chiara.
Ci ha pensato tuttavia Vincenzo Boccia, non appena balzato alla presidenza di Confindustria, a ristabilire un equilibrio e a chiarire che “la ricchezza si distribuisce laddove prodotta” – si legga in azienda – e che solo a queste condizioni gli Industriali sono disposti a ragionare. Pare tuttavia difficile pensare che la strada possa essere diversa, visto anche quanto il governo sta incentivando fiscalmente la contrattazione di secondo livello in un’ottica di crescita della competitività e della produttività aziendale, cosa per altro che la stessa Ue chiede all’Italia dal 2011.
La recente intesa sulla contrattazione territoriale tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil (15 luglio 2016) fa pensare che manchi davvero poco alla quadratura del cerchio: se in autunno, come pare, questa dovesse essere seguita da quell’accordo interconfederale che si attende dal 2013, potremmo dire che le condizioni per iniziare un nuovo corso ci sono tutte e, a questo punto, “a ognuno il suo lavoro” come recita l’incontro di oggi del Meeting 2016 a cui prenderà parte proprio il Segretario Generale della Cisl, Annamaria Furlan. Non si può infatti pensare che la crescita dipenda solo da regole migliori, certo queste sono conditio sine qua non; ma poi tocca all’impresa fare la sua parte.
Restano però sullo sfondo alcune incognite, legare in modo forte salario e produttività è un salto culturale importante che chiede non solo una nuova consapevolezza e dei nuovi comportamenti, ma anche delle capacità che non possono essere date per scontate. Solo per fare una domanda: gli attori sono pronti? Ma anche: quanto spazio troverà la contrattazione di secondo livello nel nostro tessuto produttivo composto prevalentemente da Pmi? Come accompagnare lo spostamento del baricentro contrattuale? La derogabilità assistita può essere una pratica a supporto di tale processo come lo è, ad esempio, in Germania e in Francia?
Se non vogliamo che ancora una volta cambi soltanto un teorema, questo cambio di passo va attentamente accompagnato, perché il problema delle “periferie” esiste anche nel sindacato. Diversamente, più che il secondo livello, cresceranno i conflitti.
P.S.: Aspettiamo fiduciosi che impresa e lavoro stringano quell’alleanza che riconosca finalmente all’impresa il ruolo sociale che merita e che chieda con forza al governo la vera riforma strutturale di cui questo Paese ha bisogno, ovvero quella del fisco.
Twitter @sabella_thinkin